Gianluca Poldi
Stilleben, studium, forma
« Nell’alba dubitosa
il padre di mio padre salvò i libri.
Sono qui nella torre dove giaccio
e ricordano i giorni stati d’altri,
gli stranieri, gli antichi.
[…]
Sono là nei loro alti palchetti,
remoti e prossimi a un tempo,
visibili e segreti come gli astri »
Costruire e interpretare lo spazio, uno spazio, è una importante caratteristica di quel genere pittorico detto Natura morta in italiano, ma forse in maniera più pertinente Still life in inglese e Stilleben in tedesco.
Curiosamente agli antipodi stanno il rimando a morte nella versione neolatina e quello alla vita, vita silenziosa, in quella inglese e tedesca.
Di ciò che è o pare morto in una Natura morta, ora davvero elementi di natura come frutti e fiori prelevati dalla pianta, come animali morti o minerali, ora più in generale le cose rappresentate in quanto inanimate, siano pure prodotti d’artificio, la definizione nordica recupera lo spazio del silenzio, in una lettura più umanistica e mediata, facendo degli oggetti presentati quasi i protagonisti ancora vitali di un dialogo, silenzioso, di uno stare (fermi) tuttavia vivo, vivace, nella capacità di rimandare alla verità di un ambiente, di un contesto, di legami.
Saper interpretare lo spazio in cui l’opera si colloca è gesto fondamentale dell’artista, come il senso dello stare consapevole in un certo luogo è proprio dell’uomo.
Il concetto di ospitalità e dei rapporti tra ospite e ospitante nella civiltà greca antica, di cui costituiva un aspetto assai rilevante, si condensa nella parola xenía. Ospitare coloro che chiedevano ospitalità era per i greci un dovere, regolato da consuetudini non scritte legate al rispetto reciproco e al dono di commiato fatto all’ospite. All’ospite stavano la gentilezza, la non invadenza.
Analogamente in molti popoli e nella civiltà cristiana prospettata da San Paolo, sulle fondamenta ebraiche: «Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo». Dove angelo è messaggero, traduttore di realtà diverse, nesso.
Come ricorda Vitruvio i doni all’ospite, gli xènia, sono anche un genere pittorico che rappresentava galline, uova, ortaggi, frutti e altri prodotti della campagna che venivano solitamente donati all'ospite: «poma reliquasque res agrestres».
La capacità di mimesi del reale nel ritrarre oggetti, o figure, è stata a lungo la virtù principe richiesta alla pittura, fin dall’antica contesa narrata da Plinio il Vecchio fra i due celebri pittori greci Zeusi e Parrasio, il primo capace di dipingere grappoli d’uva tanto realistici da indurre gli uccelli a beccarli, il secondo in grado di ingannare l’occhio esercitato dello stesso collega Zeusi, che di fronte alla tenda dipinta da Parrasio volle scostarla, credendo celasse il quadro.
Per i romani le nature morte diventeranno brani di pittura parietale e mosaici pavimentali, decorazioni e cornucopie, anche da leggere nella direzione dell’oraziano carpe diem, in raffinati accostamenti fino all’epoca paleocristiana.
Nel basso medioevo bisognerà attendere la teologia San Tommaso d'Aquino e il pensiero di san Francesco d’Assisi, il ritorno della filosofia aristotelica e le filosofie del Doctor mirabilis Roger Bacon e di Guglielmo di Occam per vedere il cattolicesimo riconciliarsi con le sensazioni e l’esperienza della natura, riportando attenzione all’oggetto in quanto tale, attraverso i dipinti di Giotto e Duccio di Buoninsegna.
Come ricorda Wolfgang Liebenwein gli ambienti di studio antichi, descritti da Cicerone e Plinio il Giovane, si trovano in ville, fuori dalle città, favorendo l’isolamento e il contatto con la natura. Il dialogo con la natura tuttavia può anche distrarre dallo studio, che richiede silenzio e calma profondi, come scrive Quintiliano citando Demostene, che lavorava di notte al lume di una lampada.
Passando poi per gli scriptoria e le celle monastiche, il Medioevo arriverà alle prime figure di intellettuali del nascente umanesimo, come Petrarca con il suo studio di Arquà.
I termini studium e studiolo, che nascono nel XIV secolo intorno alle corti papali, iniziano da quelle date a diventare luoghi che ospitano e conservano collezioni, non solo librarie, prima in Francia e poi, nel Quattrocento, in Italia. Dove è bene rammentare che la parola studium per i latini significa applicazione, cura, impegno, passione, qui naturalmente a favore della conoscenza, quindi luogo di approfondimento.
Petrarca ricerca uno studio vicino alla natura per evadere tra boschi e prati e ristorare lo spirito –
«quietis reparandique animi tempus» – durante l’attività intellettuale.
Questa formula di studiolo è quella in cui Antonello da Messina inquadra il suo San Girolamo nello studio, ora a Londra, dove la complessa architettura che ospita libri e pochi oggetti, inclusi vasi di fiori, è aperta nel fondo di con due finestre su un luminoso paesaggio, una natura viva e abitata. Mentre Van Eyck, nel San Girolamo nello studio di Detroit (1442), la natura è assente, alta la finestra sul cielo, sopra il santo, ma nelle scansie e sullo scrittoio hanno posto una clessidra, un cannocchiale, una riga, un'ampolla, un astrolabio, oltre ai libri e a strumenti per la scrittura. In questo senso Girolamo rappresenta il prototipo dell'uomo di cultura del Rinascimento.
Anni dopo, nel 1502, a Venezia, Vittore Carpaccio inserirà il suo Sant’Agostino della Scuola di San Giorgio degli Schiavoni in un ambiente vasto e luminoso, ricco di altri oggetti ancora, oltre a quelli, tra cui arredi sacri, spartiti musicali, una grande conchiglia cypraea e alcune piccole sculture.
Per queste date lo studiolo, propriamente detto, va a contenere non solo e addirittura non tanto libri, ma oggetti di valore e opere d’arte, sovente riferibili a diversi ambiti, dall’astronomia al collezionismo di piccole sculture, alla musica, ad altre arti relative alle muse che diventano parte simbolicamente dell’iconografia di questi luoghi.
Proprio in uno studiolo tra i più rilevanti in assoluto, quello di Federico da Montefeltro nel Palazzo di Urbino, realizzato nel 1473-1476, si trovano tra le prime rappresentazioni autonome di oggetti artificiali tratti dagli ambiti delle armi e delle arti liberali, dai codici alla musica, dalla geometria all’astronomia, e cose naturali, come frutti e uno scoiattolo, tra le prime Nature morte - Still life insomma, in forma di tarsie lignee prospettiche.
Quanto rappresentato diventa, nel piccolo studiolo urbinate, strumento dello spirito, come notava tra gli altri André Chastel. I finti armadi intarsiati rimandano alle preziose forme e strumenti riposti nell’intimo, nella mente dell’umanista, dello studioso, come fu effettivamente il condottiero Federico, creatore di una mirabile biblioteca di codici sceltissimi.
Studiolo è quasi altro spazio della mente, cavità per organizzare nel silenzio le conoscenze. In anni in cui la città stessa veniva da alcuni pensata come corpo, con organi dedicati a varie funzioni, come nel Modello di città, disegno conservato nella Biblioteca Reale di Torino, di Francesco di Giorgio Martini, che pure operò come architetto nel Palazzo del Duca in Urbino.
Qui è anche, per certi versi, decontestualizzata dai secoli in un tempo sospeso, la nascita della “pittura” metafisica, armadi di simboli che non celano altro che rappresentazioni di oggetti oppure che celano altri significati, variamente alla prova del lettore.
La Ferrara di de Chirico, nel 1917, aveva già perduto da quasi tre secoli in un incendio il suo strabiliante studiolo (1443-1463), quello di Lionello d’Este nel Palazzo di Belfiore, con le tarsie dei da Lendinara e il ciclo delle muse dipinto, tra gli altri, da Cosmè Tura, superstite ma smembrato.
Lo studiolo come luogo delle arti, rappresenta la grande acquisizione rinascimentale nell’evoluzione del luogo di studium e riflessione. Nel Palazzo urbinate lo Studiolo del Duca collocato al piano nobile poggia sopra i due piccoli ambienti gemelli della Cappella del Perdono e del Tempietto delle Muse, in una unità di senso e amplificazione di significati in cui allo Spirito si affiancano la Fede e la Poesia, o più in generale le arti apollinee.
Lo studiolo che si fa luogo sacro alle muse, diventa museion/museum, sede di raccolte (talora a vocazione enciclopedica) di oggetti rari, preziosi o semplicemente insoliti, soprattutto dal Cinquecento evolvendosi ad affrontare nuovi interessi culturali. Gli spazi delle raccolte e le collezioni stesse si fanno Wunderkammer, camere delle meraviglie (mirabilia) o cabinets de curiosités, a contenere naturalia (minerali, animali, vegetali), artificialia (oggetti d’arte anche ottenuti dalla modifica di oggetti naturali), scientifica (dagli strumenti delle scienze agli automi) ed exotica (a includere oggetti etnografici).
La Still life di Bonacci è anche nella direzione delle mirabilia, da un lato creando forme nuove, dall’altro ponendo a confronto forme differenti, dopo avere esplorato temi confinanti con lo studiolo come nel suo Scriptorium del 2003.
Il latino forma (a significare l’ampia area semantica di aspetto, figura, immagine, statua, impronta, modello, modo, anche disposizione, norma), si ritiene venga dalla radice sanscrita dhṛ, che indica il tenere, sostenere, da cui anche il latino firmus, stabile. Formositas è, direttamente, la bellezza dell’aspetto. Altri vedono questo lemma derivato dal greco morphé attraverso un passaggio dall’etrusco.
Semanticamente affine a forma, morphé invece unirebbe la base mor- che esprime il senso del vedere, dell'apparire, alla radice –fé che pare risalire dall'ebraico af, con il significato di faccia, per cui la forma sarebbe la faccia visibile delle cose.
Creare una nuova forma, come consapevolmente fa l’artista, vuol dire dare sostegno a una nuova immagine, costruendo un nuovo essere comunque reale.
Le forme nuove che appaiono sotto i sensi umani si sottopongono, per innata necessità umana d’ordinamento e conoscenza, a una lettura e classificazione. Classificare per com-prendere, e dare a loro e a noi un posto, relativo e reciproco, dove pure il nostro luogo, quello dell’uomo, può mutare in relazione al nuovo oggetto, nuova forma, acquisito.
«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto».
«Tratta la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono, tutti messi in prospettiva, vale a dire che ciascun lato di un oggetto, un piano, va verso un punto centrale. Le linee parallele all’orizzonte danno la larghezza [...] le linee perpendicolari a questo orizzonte danno la profondità. Per noi uomini la natura è più in profondità che in superficie; di qui la necessità d'introdurre nelle nostre vibrazioni luminose, rappresentate dai rossi e dai gialli, una certa dose di toni blu per far sentire l'aria».
È interessante rileggere l’inquadramento, la ragionevole e fine classificazione che Denis Diderot propone nel 1750 come fondamento della Enciclopedia di cui d’Alembert scrive il Discorso preliminare, quando ancora filosofia era filosofia naturale e la scienza ne era un sinonimo.
«La filosofia, ovvero l'ambito delle conoscenze umane che si rifà alla ragione, è estesissima. Non c'è praticamente cosa percepita dai sensi che non diventi scienza se resa oggetto di riflessione. Ma nella moltitudine di tali oggetti ce ne sono alcuni che risaltano per la loro importanza, quibus abscinditur infinitum, e ai quali possono essere ricondotte le scienze tutte. I loro riferimenti sono Dio, al cui cospetto l'uomo si eleva riflettendo sulla storia naturale e su quella sacra: l'Uomo, che è certo della sua esistenza in virtù della coscienza o senso interiore; la Natura, la cui storia l'uomo ha appreso mediante i sensi esteriori. Dio, l'uomo e la natura ci forniscono dunque una generale suddivisione della filosofia o della scienza (i due termini sono sinonimi): e la filosofia o scienza sarà allora scienza di Dio, scienza dell'uomo e scienza della natura».
Conoscenza del mondo spirituale, dell’uomo e della natura, con un essere umano che prometeicamente “si eleva” al rango del divino nella misura in cui pretende una visione conoscente del mondo. In fondo echeggiando alcune riflessioni che Pico della Mirandola rielaborava dai libri della sapienza antichi, nella sua Oratio de hominis dignitate.
Al classificare si sottopone l’uomo stesso, cercando il proprio posto, la propria effigie. Nello studium che diventa osservazione di sé stesso.
«Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che avrai preferito […] Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che avrai preferito»
Nel 2006 Bonacci espone a Milano opere in piombo – come le canne d’organo antiche – ma ripiegato, accartocciato, che danno forma a parti del corpo umano, in una meditazione su corpo e scrittura: su ciascuno è appuntata una lettera, un tasto di macchina da scrivere.
Piombo è forse il metallo più simile alla grafite. Anche con la punta di piombo si disegna(va), ottenendone un segno morbido. Anche il piombo è usato da Bonacci in genere per rivestire la forma, come pure per costruirla per mezzo di pieghe, avvolgendolo come fosse carta.
La grafite, parente povero del diamante, è opacità ma capacità di segno, è un segno di polvere. La polvere è uno degli argomenti cari ad alcuni artisti del XX secolo, come lo fu nella Natura morta del XVI secolo, per esempio nelle tele di Evaristo Baschenis, ripulita col dito dalle casse dei liuti per dare più verità alla rappresentazione. Qui la grafite non è cumulo informe come nella polvere né linea come nel tracciato grafico: è superficie, definizione dei contorni di un solido nello spazio, e insieme possibilità di mutare l’aspetto reale della superficie dell’oggetto e quindi la sua percezione rendendola opaca eppure leggermente riflettente, quasi metallica. È comunque un riflesso fragile e parziale, la forma si staglia netta.
Riflettere è ospitare l’ambiente circostante, come nella Testa nera di ceramica smaltata (2013), in cui forma e ambiente dialogano. La foto della scultura fatta nella bottega dell’artista (p. 71) restituisce barbagli di uno studium. Lo studium nella testa, la testa-centro, la testa-mirino, la testa-geometria, la testa-volto. La testa- studium.
Piccole nature morte iniziarono a sorgere sul retro di ritratti nel nord Europa nel Quattrocento, come un vaso di fiori dietro il Ritratto di giovane uomo in preghiera dipinto da Hans Memling circa 1485, conservato al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid.
Dove la natura morta nasce con l’intento di isolare l’oggetto o gli oggetti che corrispondono al contenuto simbolico di un dipinto religioso.
Diversamente, i piccoli Memento mori con teschi e altri simboli posti sul retro di piccole tavolette come il Trittico Braque di Rogier van der Weyden (1450 ca.) e il Trittico di Mariotto di Bigio di Bindo Albertinelli al Poldi Pezzoli (1500 ca.).
La Vanitas è la Natura morta che esprime la caducità del mondo, della vita. Ma anche senza clessidre (di sabbia/polvere), teschi e altri simboli tipici, la Natura morta dice della caducità, della parzialità del tempo vitale, in fondo, perché ci mette di fronte alle cose, agli oggetti.
Il senso del memento mori, della vanitas, e più in generale della Natura morta, resta un senso fertile, di intensità nel cogliere il qui e ora.
«Ti mando Servio, che svela i misteri di Virgilio e dei suoi sublimi argomenti. Accoglilo senza paura, e non farti impressionare dal suo aspetto consunto e dalla misera rilegatura, effetti dell’età: dopo tutto, questo è l’aspetto giusto per un vecchio. Costui ti offrirà pochi semi, ma capaci di produrre un raccolto ricchissimo pur che, nel tempo, li si sappia coltivare a dovere [Dabit hic tibi semina rerum pauca, sed immensam segetem si rite colantur temporibus latura suis]. Se la debole fiamma di una lucerna basta, di notte, a mostrare la strada, e se nella calura estiva basta l’acqua corrente d’un piccolo rivo a calmare la sete, ebbene, padre, forse il mio dono non ti parrà così misero e fastidioso».
Semina rerum, scrive Petrarca con espressione lucreziana, ove semina sono i principi primi della realtà, gli gli atomi della conoscenza (racchiusi nel libro di Servio a commento di Virgilio, cui si riferisce), ma i semina hanno altrove nel testo senso proprio, riferiti sia alla generazione terrestre, in specie vegetale, sia all’umana.
Alcune forme hanno aspetto, e proprietà, di semi.
Forma, e figura, è fertilità.
Il Surrealismo, e il Dadaismo prima, catalizzava l’attenzione sull’oggetto, sull’oggetto come strumento e sull’oggetto come rimando ad altro, alla sfera personale dell’io, inconscia, simbolica, privilegiando accostamenti inconsueti e deformazioni. L’amata frase del poeta Comte de Lautréamont, «bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio», restituisce un’idea di bello che proviene dall’accoppiamento di realtà in apparenza inconciliabili nel medesimo contesto, che stimolano a cercare nessi non evidenti, a indagare, eventualmente a mettere in discussione il contesto stesso o ciò a cui rimanda, dando anche al titolo dell’opera un ruolo spesso centrale. Il bello come indagine, come enigma da svelare e mai pienamente attingibile, s-velamento e ri-velamento insieme. Stimolare sensazioni e riflessioni.
Le radici stanno nella Metafisica di de Chirico, in primis, e di Carrà e Morandi, e nelle sperimentazioni dadaiste, straordinariamente gioiose o irriverenti. Metafisica e Dada reinventano la Natura morta, in due e tre dimensioni, e si pongono inoltre come fonte anche per l’arte concettuale, per l’Arte Povera quindi, come lucidamente ci insegna il lavoro di Giulio Paolini con le sue meditazioni e prelievi da de Chirico.
C’è il fascino sottile di quanto è enigmatico, e insieme la sospensione temporale che porta il fatto fisico rappresentato oltre la sua apparenza, nella Natura morta della Metafisica.
Nitidezza assoluta delle forme geometriche, materia pastosa, viva, luce sceltissima, spazialità ricercata. Così nella Grande natura morta metafisica (1918) conservata alla Pinacoteca di Brera, dipinta nel 1918 da Giorgio Morandi, che da adolescente Bonacci era solito copiare.
Lo studio di Morandi in via Fondazza come sorta di studiolo novecentesco. Nature morte di contenitori che paiono edifici adunati in piccole frazioni di paesi, tra la luce e la polvere. Quadri che sono composizioni di forme che rammentano vestigia di civiltà.
Antonio Leonelli da Crevalcore, bolognese come Morandi, quattro secoli avanti a lui dipingeva ammirati brani di pittura morta intorno ai suoi dipinti. «Da Crevalcor mestr’Antonio dotato / Fu di varie virtuti, e in pittura / Sempre di pari andò con la natura, / Salvo che a l’opre sue non dava il fiato».
Nel San Paolo, 1480-1485, che nella figura riecheggia il San Sigismondo affrescato da Piero della Francesca a Rimini un trentennio prima, il pittore rappresenta due sfere nere (di diorite?) una più piccola sotto il piede sinistro, una grande sopra la balaustra. Forme misteriose e perfette, come uscite da un cabinet de curiosités.
Man Ray incide profondamente immagini con i suoi bianchi e neri fotografici, il rapporto tra figure e oggetti, e la polvere come oggetto di interesse “pittorico”. Usa manovelle, come in una celebre foto Érotique voilée del 1933, mani, braccia, occhi.
Sembra che lavori costantemente sul tema dello Still life anche quando impiega figure umane.
Nello Still life di Bonacci il tappeto-basamento-passerella mette le opere in uno spazio isolato, quasi rituale, del mostrare. Non ciascuna isolata ma tutte legate insieme, negli accostamenti inconsueti proposti, nell’armonia delle forme, nella finezza della proporzione, nel ritmo, nell’unire forme di natura e di artificio. Diversità di geometrie.
Il dialogo costante nella polarità tra arte come techné, come abilità a costruire, e natura. Un “doppio sguardo”.
(Testo critico pubblicato nel catalogo della mostra personale di Stefano Bonacci "Still life" Centro culturale, Segrate, 2019)