Lorenzo Fiorucci

Il doppio sguardo


Mettere a fuoco l'opera di Stefano Bonacci presuppone di evocare per alcuni aspetti il filone postmoderno che almeno dagli anni ottanta del secolo scorso va sedimentando in una direzione in cui convivono senza troppi sussulti, confluenze linguistiche eterogenee e aderenze formali a modelli storici anche lontani nel tempo. Trovarsi davanti all'opera di Bonacci rischia infatti di mandare in confusione l'osservatore meno accorto, eppure attraverso i temi che egli affronta facendo ricorso alla natura morta, come concetto dominante, e all'impiego della misura geometrica, come linguaggio di comunicazione universale egli, come ha già rilevato in altra occasione Gianluca Poldi, riallaccia i fili con la storia in cui questi elementi sono alla base dell'arte classica e rinascimentale. Nulla di più semplice e tradizionale verrebbe dunque da chiedersi. Non è esattamente così. Le confluenze linguistiche riscontrabili nel lavoro dell'artista umbro, fanno certamente tesoro delle esperienze più avanzate della ricerca artistica del novecento; dal duchampiano ready made fino all'impiego di una sintassi comunicativa e tecnica che per alcuni aspetti oscilla tra l'iconicità dell'immagine, il prelievo oggettuale poverista e l'utilizzo, in senso arcaicistico, del simbolo in quanto strumento evocativo. Una tendenza che si unisce all'inserimento della componente geometrica, particolarmente diffusa tra gli artisti umbri, più o meno della sua generazione; penso alla declinazione in una spiritualità arcaico esoterica di Carlo dell'Amico o alla sintesi simbolica costruttiva di Danilo Fiorucci, fino alle dimensioni ultrasottili indagate da Bruno Ceccobelli. In Bonacci in verità la componente simbolica non si sublima nel trascendentale tout court, ma lo sguardo dell'artista come ebbe a confidare in un'intervista a Bruno Corà è doppio: da un lato rivolto alla storia e dall'altro all'attualità. L'unione di questa visione binoculare sembra aprirsi sul paesaggio del mondo in una sorta di attenzione, talvolta di richiamo o meglio ancora di critica, nei confronti di ciò che si esercita in questo come in ogni tempo. Per accorgersene è sufficiente osservare attentamente un'opera che credo sia esemplificativa dell'approccio all'arte di Bonacci:  Autoritratto con trappola del 2006. L'opera, oltre che essere la cover della prima importante monografia sulla produzione dell'artista, è un vero e proprio manifesto identitario della sua ricerca che si esprime attraverso la sedimentazione di livelli tecnici e linguistici diversi e apparentemente inconciliabili. 

La base di partenza è l'immagine in primo piano del volto dell'artista, realizzata attraverso un semplice scatto fotografico in bianco e nero su carta baritata, dalla quale sembra trasparire un clima d'altri tempi che proietta lo spettatore ai suggestivi autoscatti di Franco Vaccari, anticipatori dell'attuale narcisismo social di cui l'artista riuscì a cogliere, in anticipo di più di quarant'anni, la tendenza nella Biennale del 1972. Bonacci trasforma il suo volto in manifesto pubblicitario con intensa pregnanza comunicativa. Tuttavia il tema non è la rappresentazione di se ne è presente l'intento autocelebrativo dell'autore, o almeno non è l'unico tema riscontrabile nell'opera, ma certamente rappresenta la genesi iconografica di un'idea che procede secondo una struttura ipotattica verticale, sedimentando su tre livelli, posti in successione, che conducono ad un esito riflessivo finale. Ipotattica in quanto sussiste nell'opera un'azione principale che sostiene il resto che invece procede in subordine in una sorta di piramide comunicativa. Il risultato dell'azione è dunque lo scatto fotografico del volto sul quale Bonacci interviene individuando una serie di punti focali non premeditati, ma intuiti secondo l'idea di una fisica che supera l'aspetto sensibile, richiamando in qualche modo l'idea Metafisica di Dechirichiana memoria, che si manifesta congiungendo i punti focali con semirette, restituendo un volume stereometrico irregolare. In questo primo passaggio si raccordano due elementi all'apparenza lontani: la naturalità irregolare di un volto con la linearità mentale della geometria, che l'artista indaga rimanendo su questo livello in altre opere come ad esempio Studio di testa del 2000. Il terzo passaggio consiste nel prelievo di un oggetto simbolico in questo caso una trappola per topi arrugginita, che porta dunque con se un tempo; quello lungo e paziente dell'attesa della preda. Confluiscono, in questo strumento, almeno due significati: da un lato il portato esistenziale di esperienza che l'oggetto nel suo presentarsi in forme deteriorate dal tempo dichiara, e dall'altro lato un valore simbolico evocativo. Infatti l'oggetto diviene dirimente per comprendere il senso conclusivo dell'opera: non solo la trappola conserva la sua funzione originaria di catturare la preda, ma Bonacci, nel posizionarla a mo di scuro sopra gli occhi dell'immagine fotografica, cela la vista e allo stesso tempo copre la geometria disegnata sul volto.  Una scelta che suscita una sorta di rumore nell'armonia formale dell'opera, o meglio un disturbo che secondo la teoria della percezione estetica di Andrè Moles, amplifica il contenuto informativo dell'opera.  La trappola, unico oggetto reale su una base fotografica in bianco e nero, rivela per contrasto la natura simbolica dell'opera, restituendo l'impossibilità di possedere piena conoscenza della natura stessa delle cose. Impossibilità che appartiene non solo all'uomo in quanto osservatore del mondo, ma in questo caso anche all'artista che si fa creatore del mondo, anch'egli impossibilitato a cogliere nella sua interezza la natura stessa delle proprie creazioni. Un processo simile per certi esiti anche formali dell'opera, alla storica performance di Giuseppe Penone  Rovesciare il mondo (1970) anche se con esiti diversi, l'intento dell'artista piemontese, che indossando due lenti specchianti sul viso riflettevano l'osservatore e negavano a lui la vista, era infatti più un invito ad un auto analisi introspettiva dell'uomo. Lo sguardo doppio di Bonacci fa proprio quell'invito a guardarsi dentro, ma aggiunge ancora un altro passaggio che appartiene più ad una necessità comunicativa. La struttura ipotattica, piramidale dell'opera, si rivela proprio nel rapporto uno - infinito attraverso lo sguardo celato di Bonacci, il quale incrocia potenziali illimitati osservatori che rischiano tuttavia di cadere in trappola, in quanto convinti di poter vedere, o percepire interamente le cose e dunque i fatti del mondo, o semplicemente ciò che solo l'autore dell'opera conosce, ma che non può esprimere mai completamente nella sua interezza. L'artista mette in atto dunque un dispositivo, metafora di una condizione naturale e quotidiana, in cui l'elemento percettivo della realtà risulta sempre più alterato così come la convinzione di cogliere le cose nella loro profonda verità appare impresa improba in un tempo che sempre più corre impedendo ogni ulteriore misura di riflessione. Mai come oggi si può constatare quanto l'uomo rischia, o peggio ancora è caduto vittima della trappola, convinto di navigare il mondo si dimena senza rendersene troppo conto, solo, tra le maglie più o meno strette della "rete". 

Una situazione simile, ma con una manifestazione più articolata è sviluppata da Bonacci nella monumentale installazione Still life presentata a Segrate. La dimensione installativa dell'opera rende forse con maggiore efficacia il rapporto tra simbolo e oggetto con un'ulteriore indicazione, di carattere atemporale, quindi universale. Still life infatti è una presentazione di prelievi oggettuali posizionati nelle prossimità della quotidiana esistenza. Sono in altri termini frammenti di vita, entro cui la componente immaginaria e onirica domina, presentati nella loro identità formale, ma ai quali è negata la natura materiale dell'oggetto. Aiuta nella narrazione di quest'opera evocare la scena di un celebre film degli anni sessanta Agente 007 missione Goldfingher del 1964, anno cruciale per l'arte italiana e non solo, in cui l'antagonista assetato di oro ricopre con il prezioso metallo l'amante del protagonista, mitizzando come una scultura ad eternum la preziosità del corpo di Shirley Eaton. Allo stesso modo, ma con diversi intenti Stefano Bonacci, compie un'azione simile su modelli di frammenti scultorei classici, forme organiche irregolari o geometrie stellari perfette. Così come in Autoritratto con trappola l'artista ostruisce, censura o forse meglio trasforma l'oggetto. In Still life il dispositivo si attua depositando sopra ai manufatti, una spessa e lucente coltre di grafite che immortala il prelievo storico, quotidiano o immaginario che sia e lo proietta in un futuro senza tempo. 

Un'azione di evidente mimesi di scultura metallica, che nobilita la materia prima in un processo di trasformazione, negando tuttavia allo sguardo dell'osservatore la natura reale dell'opera. Sussiste nelle opere di Bonacci un do ut des come necessità irrinunciabile del fare arte, pegno da pagare in un tentativo doppio di restituire una parte di verità attraverso la negazione di un'altra. Evidente condicio sine qua non, indispensabile per ridurre una sequenza di tempi passati e presenti in un'unità eterna non negoziabile.      


(Testo critico pubblicato nel catalogo della mostra personale di Stefano Bonacci "Still life", Centro culturale,  Segrate, 2019)