Bruno Corà 


Nel mio lungo percorso professionale che ha coniugato l’attività di insegnamento, con l’azione di tutela e salvaguardia dell’opera d’arte in quanto direttore di strutture museali e infine di militanza critica, attraverso la scrittura e le conferenze pubbliche, ho incontrato l’artista Stefano Bonacci e le sue opere agli esordi della sua ancora giovane carriera. Nella metà degli anni Novanta, infatti, Bonacci si distinse tra i colleghi allora studenti presso l’Accademia di Belle Arti di Perugia, con una serie di opere originali con le quali concludeva il suo ciclo accademico di studio, rivelandosi quale promettente personalità artistica. Incentrate su una declinazione del concetto di “Natura morta”, quelle opere, in verità,  attraverso l’impiego di elementi di rivestimento applicato da Bonacci a oggetti obsoleti e abbandonati, li ‘rimetteva in vita’. Con quell’atto di ‘protezione’ tecnica, ma anche di ‘conoscenza meditativa’, il giovane artista mostrava simultaneamente di conoscere materie come lo stagno, il piombo, il ferro filiforme, ma anche ogni aspetto relativo alla concezione ed elaborazione della ‘forma’. In seguito, questo interesse verso la natura (morta o viva che fosse), ma anche verso la tecnologia e la ‘macchina’, lo indusse a inserire quelle sue creazioni direttamente in luoghi aperti, con installazioni nel paesaggio che comportavano regole armoniche e di contestualizzazione ambientale dietro le quali si leggeva il legame con la grande tradizione leonardesca e rinascimentale.

Tra le opere più emblematiche di quella sua stagione di ricerca, un’opera come Ponte (1997) declinata in successive versioni fino al 2005, rivelava ampiamente il suo interesse per la natura, ma anche per una filologia artistica che si estendeva dal mondo classico a quello rinascimentale e infine a quello scientifico e plastico della contemporaneità. Ciò divenne ancora più evidente con le ‘stereometrie’ attuate sul corpo idealizzato, come pure su quello stesso dei solidi geometrici. Questa nuova fase di lavoro nasceva da una riflessione interiore sull’idea di forma non intaccabile da contingenze storiche, ma capace di attraversare il tempo senza corrompersi, evidenziando in tal modo la sua essenza armonica.

Negli anni 2000 si accentua in Bonacci la vocazione a sottrarre la sua arte dall’incidente del quotidiano, dalle pratiche eclettiche e caotiche e ancor più da eventi di carattere sociale e politico, incline piuttosto a concepire l’arte come atto creativo distanziato dal quotidiano e dal mondano. In questa prima decade del 2000 si evidenzia l’interesse per la luce in numerose opere identificative del concetto di bellezza, di spazio e di medium cromatico, soprattutto mediante l’impiego del neon.

Accanto al neon, anche l’impiego di materiali specchianti, implicanti l’idea di leggerezza e perdita di fisicità, interessano la sua azione plastica.

Con il proseguimento della sua ricerca affiora anche un interesse per la dimensione spazio-temporale ben definita nel ciclo Forme del tempo (2004) in cui le forme, alla stregua di cellule, crescono dando vita al tessuto dell’immagine e con essa a un organismo suscettibile di infinite variazioni morfologiche.

I successivi passi dell’azione di Bonacci sottolineano e confermano l’attitudine alla sperimentazione dei materiali e degli strumenti, ma altresì un inesauribile capacità di coniugare domande scientifiche con tensioni umanistiche  e poetiche, in ambiti estetici attraversati con sorprendente libertà e capacità.


(Testo critico pubblicato nel catalogo della mostra personale di Stefano Bonacci "Still life" Centro culturale,  Segrate 2019 )