Aldo Iori

L’osservatore che qui nuota


« L’opera è posta dinnanzi all’osservatore. Essa è frutto di un meticoloso lavoro dell’autore che, quasi in un alchemico processo, fonde materia e pensiero; in essa trovano corpo le necessità ad un’espressione verificata attraverso un proprio metodo di calibratura costante mai improvvisata. Il costante procedere creativo non può sostare se non in quell’opera, momentaneamente, sospesa in un qui/adesso sempre contemporaneo e congiunzione tra un prima e un dopo. La materia viene elaborata in uno spazio-tempo nel quale l’esperienza dell’artista si fonde di volta in volta con la tensione di un pensiero dell’arte raggiungendo risultati in sé conclusi eppure germinazione possibile di opere a venire. Sempre più spesso essa necessita del rapporto con il luogo nel quale trova spazio o esige una verifica nell’ambiente espositivo che, per le sue qualità differenti dallo studio, esalta ed amplifica alcuni elementi propri del lavoro. Vi è una soglia oltre la quale essa viene definitivamente licenziata e osservata dall’autore stesso, primo a stabilire un rapporto critico con essa, in un possibile e vergine sguardo dal di fuori. In seguito, contemporaneamente o a volte anche dopo tanto tempo, l’artista decide di donarla all’osservatore. 


L’osservatore è dinnanzi all’opera. Egli spesso è privo di coordinate specifiche che lo aiutino a stabilire un rapporto critico con essa; la distanza tra osservatore e opera si colma a poco a poco attraverso una sorta di corpo a corpo che pretende uno sforzo non semplice. Come nel momento creativo può essere necessario un abbandono ai sensi per operare una sintesi tra le esperienze fisiche e culturali così nel momento ricettivo sono altresì necessari una particolare generosità all’attenzione critica e un abbandonarsi all’opera; essa richiede di lasciare ogni filtro, ogni fardello che appesantisca lo sguardo e di conservare solo gli strumenti utili a fornire la possibilità di un nuovo esercizio della vista e a ricevere al contempo stimoli per un esercizio critico che permetta di oltrepassare la soglia di una superficiale materia introducendo l’osservatore alla dimensione spaziotemporale che viene offerta. Già nell’antichità si scoprì nuotando che per ricevere era necessario dare, ottenendo l’equilibrio tra differenti forze.


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Stefano Bonacci ha costruito, due anni or sono a Spoleto e quest’anno a Düsseldorf, delle ‘camere visive’ osservabili solo da un piccolo varco per gli occhi, una sorta di ‘postazione’ dalla quale si poteva vedere, nel primo caso, un tavolo, degli oggetti su di esso, una luce rossa e una proiezione di una figura geometrica sul muro sovrastante e, nel secondo caso, la figura rovesciata di un uomo di spalle poggiato sul soffitto che emanava un rosso chiarore in un  grande ambiente buio solcato da una lunga linea luminosa sul muro di fondo. Stavolta non si pone chi guarda nella condizione voyeuristica esterna ma si richiede un suo più tradizionale ingresso fisico nello spazio che l’opera determina. La vista dell’esterno è preclusa, abbandonata nel momento del superamento della soglia. Il luogo è ribaltato dalla condizione di postazione d’osservazione esterna a ‘posizione’ interna al meccanismo del guardare. L’opera è disposta su tre lati ed essa circonda e costringe lo sguardo ad un’immersione completa. La grande tela e i dischi disseminati circolarmente presentano una pittura il cui fluire sul supporto pare essersi arrestato nel passaggio dallo stato liquido a quello solido in una sorta di fossilizzazione dell’immagine, quasi ingrandimenti di microdepositi pliocenici nei quali non è più possibile scindere l’organico dal minerale. Le superfici tese e perfette si distendono sollecitando piacevoli abissi visivi e ponendo tuttavia interrogativi non solo sul rapporto tra la determinata azione dell’autore e la casualità del risultato ottenuto dalla reazione del materiale, ma sui concetti di figurativo e astratto, di naturale e di artificiale. In opere precedenti tali questioni venivano risolte con l’ausilio di un sapiente equilibrio tra forma naturale utilizzata come ready made e manufatti in piombo, ferro, ottone, nei quali il tempo dell’esecuzione riconduceva fortemente l’opera ad una condizione antropologica del fare. In queste opere tutto è posto in gioco nel campo della pittura dove le regole sono forse più ferree e precise che altrove, per cui non sono possibili fughe e scarti laterali. Oggi la condizione della pittura esige più che mai nette prese di posizione per affermare ancora una sua possibilità a fornire vitali quesiti e possibili risposte in un inesorabile doppio movimento centripeto e centrifugo che alcuni particolari delle opere esposte metaforicamente sembrano indicare. Inoltre l’introduzione al paesaggio, a specifici materiali e lavorazioni, al rapporto dell’uomo con la natura, o alla densità e proporzionalità pittorica divengono per l’artista ancora una volta momenti qualificanti di un pensiero umanistico alla continua ricerca della definizione della bellezza.»


(tratto dal testo critico presentato in occasione della mostra  - Luoghi d'osservazione 3" con Klaus Munch, Castello di San Terenzo, Lerici, La Spezia, 2004)