Bruno Corà

Spazi della cattedrale interiore

Conversazione con Stefano Bonacci




Bruno Corà - Il ricordo che ho del tuo lavoro, il più lontano, quello iniziale, è proprio legato all’esito degli studi. Quell’opera che a metà degli anni Novanta eravamo stati invitati a esaminare, come prova finale di tesi all’Accademia di Belle Arti di Perugia, era composta di vari elementi nei quali ponevi attenzione al rivestimento degli oggetti naturali, attraverso l’uso di stagno, piombo e legature in filo di ferro, di una parte di essi. Quindi una natura morta, ma una natura morta che subito metteva in evidenza l’aspetto, quasi perverso, di volerla tutta rivestire molto tenacemente e integralmente. Questo dato colpì un po’ tutti, me e i colleghi, e notammo che quei lavori in cui era presente quella particolare attitudine al rivestire facevano famiglia con un’altra serie dove c’era la presenza di parti anatomiche, ossa animali, rami e pietre lavorate, quindi un vero e proprio repertorio di cose che portava in evidenza l’aspetto del rivestimento. Non so se si possa parlare dell’atto di proteggere.


Stefano Bonacci - Evidentemente per me era un atto di protezione della materia che si traduceva in questi rivestimenti, ma anche un atto di conoscenza, quasi una meditazione sulla natura delle cose e allo stesso tempo un atto d’amore, che in ogni caso produceva un nuovo corpo. D’altra parte inserivo anche degli oggetti meccanici come innestati nell’opera, che trasformavano in qualche modo questi elementi naturali in una sorta di macchine prive di funzione…


BC - Quindi c’era una relazione tra le parti e il tutto dell’organismo, dalla natura verso la tecnica e la tecnologia… anche quella semplice dell’operare, del fare.


SB - Si. Operavo in maniera quasi chirurgica su questi elementi naturali che io sceglievo anche per la loro forma. Il risultato di tale esperienza fu mostrato in un’installazione che realizzai nel ’95 a Perugia nella mostra intitolata WAR.


BC - Ecco si, questo è il ricordo più “antico” che ho del tuo lavoro.


SB - In seguito l’interesse verso la natura mi ha portato a realizzare opere in luoghi aperti e a inserire gli oggetti direttamente nel paesaggio. Realizzando queste installazioni osservo sempre una regola armonica interiore, mediante la quale la forma del paesaggio viene ad essere continuamente verificata dalla presenza dell’opera. Nel caso dell’Orto Botanico a Perugia ad esempio, ho scelto di realizzare una scala di legno lunga sei metri, che uscendo verticalmente dal terreno proseguiva idealmente all’infinito.


BC - Quindi, era un elemento di congiunzione tra la terra e il cielo, l’axis mundi, e poi la scala assume la funzione di un ponte nell’opera Ponte del 1997 … ecco allora ti domando: questo modo di attraversare lo spazio, presente almeno in alcuni lavori di Pascali o Ranaldi e Bagnoli, per te che senso aveva? Il ponte, continuamente evocato nella storia dell’arte (Die Brucke) e più recentemente nell’affermazione di Pistoletto “congiungiamo le culture”, per te invece che senso aveva?


SB - Quest’opera Ponte del 1997 rappresenta per me il passaggio nello spazio di un’esistenza che, proveniente dal cielo, si avvicina alla terra sfiorandola per poi tornare al cielo, mentre la sua forma é data dal proprio peso ed è il risultato della forza di gravità. In un’altra opera invece, che s’intitola Samurai del 2000, ho utilizzato due scale legandole con del filo di ferro, creando una tensione tale per cui le scale si autosostengono verticalmente in una compressione tra soffitto e pavimento. L’elemento del ponte in ogni caso ritorna anche in lavori successivi come nel Ponte che tu hai visto, nel 2005 a San Casciano dei Bagni.


BC - In quell’occasione avevi realizzato una sorta di scala-ponte fatta di specchi …


SB - Un trampolino sul paesaggio.


BC - Ma è certamente un elemento di attraversamento spaziale, con tutte le sue declinazioni.


SB - Sì, un oggetto che mi interessa perché congiunge, mette in comunicazione.


BC - Noto però uno spostamento rispetto a quello che prima avevamo definito salvaguardia, intenzione di custodia…


SB - Sicuramente. All’inizio ho cercato un rapporto “fisico” con la materia e con la natura, un rapporto che fosse diretto, tattile se vuoi, con l’intenzione di proteggerla, di fasciarla, di rivestirla. In seguito è subentrata un’osservazione che possiamo definire più distaccata, per cui alcuni oggetti che ho realizzato sono stati concepiti per verificare direttamente la forma del paesaggio. Entrano in contatto con la natura attraverso il loro dialogo formale con ciò che li circonda. In alcune mie opere il paesaggio entra a far parte del lavoro attraverso la riflessione, specchiandosi; in altre invece ciò avviene perché l’opera è attraversabile dallo sguardo, come nel caso delle stereometrie per cui ciò che è dietro l’opera diviene parte dell’opera o viene segnalata dall’opera stessa.


BC - Un’altra cosa che mi ha colpito è l’uso delle stereometrie che mi sembra mettano in evidenza il corpo, inteso come elemento dotato di misura, in tutti i sensi; da quello che può essere il rapporto tra le dita della mano e il resto del corpo, o anche la presenza di coordinate assiali in una figura geometrica sovrapposta al tuo volto, come potevano essere i solidi che citavi.


SB - Si, si tratta sempre di corpi, ma corpi asciugati e idealizzati.


BC - Nel De Divina Proportione di Luca Pacioli vi sono, tracciati dalla mano di Leonardo, volumi geometrici nell’osservazione di corpo plenuum e vacuum. Mi piacerebbe che tu mi parlassi di questo rapporto col corpo che tu investi in più casi, come nelle mani (Disegni), oppure nel tracciato sul tuo volto, con l’uso di figure geometriche piane perfette come il cerchio, il quadrato, il pentagono. Come nasce questo rapporto stereometrico col corpo?


SB - Essenzialmente nasce da una riflessione interiore sull’idea di forma, sulla possibilità di realizzare, di poter far nascere una forma che può essere nel tempo stabile, una forma universale che non sia intaccabile dalle contingenze storiche, una forma capace di viaggiare nel tempo senza corrompersi, ma contemporaneamente che sia in qualche maniera anonima.

È una riflessione sul limite della forma, in senso armonico.


BC – Dunque una forte tensione d’idealità della forma.


SB - Posso dire che per me ha lo stesso valore dell’icona medievale.


BC - Ci sono artisti che ritengono che la forma abbia una valenza centrale nell’opera, altri ritengono che la forma sia un punto conclusivo, altri ancora invece ritengono il conseguimento della forma un dato etico di partenza. Tu che rapporto hai invece con questo aspetto della creazione, la forma per te che cosa è?


SB - Per me la forma è ciò che si offre alla vista, quindi è ciò che veramente si ottiene, il risultato di ogni azione e di ogni pensiero; però quello che si mostra alla fine è la forma stessa e non il processo che porta alla sua realizzazione.


BC - Perché tu non consideri importante questo processo?


SB - La caratteristica implicita dell’arte visiva è di comunicare attraverso il linguaggio delle forme, senza dover appoggiarsi a teorie o parole, in tal caso perderebbe la sua forza che sta proprio nel comunicare in diretta, alla velocità della luce. Il processo come tutto ciò che porta all’opera è per me in ogni caso molto importante.


BC - Certo… l’arte visiva è testimoniata dalla forma… Ma alcuni artisti hanno prediletto la processualità al di sopra dell’esito finale della forma. Negli anni Settanta, soprattutto nell’arte concettuale questo aspetto era molto forte; poi invece si è tornati in alcuni casi a osservare la centralità della forma, la prioritaria importanza della forma finale, e addirittura alcuni artisti cancellano anche l’idea del lavoro, come se volessero che l’opera alla fine non possedesse alcun tipo di calligrafia, fosse venuta dal cielo, con una volontà determinata di cancellare la processualità che porta alla forma; all’opposto, altri pensano che sia molto importante rendere evidente il processo che ha condotto a quella forma.

Ricordo di un’altro episodio legato all’uso di una forma piramidale. Il lavoro realizzato a Perugia nel 2001 che tu hai chiamato Dialogo. Questo lavoro mi ha fatto pensare al cono della visione, la proiezione della visione stessa, invece quale voleva essere la tua intenzione?


SB - Il titolo nasceva da una risposta a una mostra precedente di un amico artista, Gabriele Serio, che aveva esposto nello stesso spazio una targa in ottone con la scritta Silenzio.


BC - Internamente aveva un pretesto.


SB - Si, questo era stato il pretesto iniziale, ma tutto si è poi sviluppato osservando lo spazio. Volevo inserire una forma che dialogasse con gli archi presenti nell’ambiente e ho individuato il triangolo. E’ stata proprio una questione formale. In seguito l’opera si è rivelata una piramide visiva.


BC - A proposito di geometrie solide o piane che siano, a un certo punto si può notare una ripetuta visitazione della forma stellare nei vari episodi che vanno da Ravenna a Parma a Perugia… La costruzione di questi solidi stellari mediante tubolari a suo tempo mi ha suscitato interesse, prima ancora dell’opera che presentasti al Museo Pecci, che non era una stella ma una costruzione icosaedrica; questa tua attitudine mi aveva sempre incuriosito perché al Parc Lullin di Ginevra nel 1985 Marco Bagnoli - anche per stabilire delle relazioni ancorché anche inesistenti - aveva realizzato il lavoro Tenda, Magnete e Campo che aveva proprio la forma di una specie di icosaedro dentro al quale si inseriva un’asta rossa, un chiaro riferimento all’elemento della banda monocroma da lui spesso usata per segnare la primitiva originaria frequenza. Dal punto di vista puramente morfologico mi sembrava che le due opere avessero una condivisione ideale della figura. Invece questa volumetria, riferita ai solidi perfetti platonici, che valore ha avuto per te?


SB - Come ho già detto, il suo valore sta nell’idealità e nell’armonia. Peraltro questo sistema costruttivo permette sviluppi infiniti, ma non è questo che mi interessa.


BC - Perché in tutto questo lavoro c’è dietro un elemento che pulsa, una tensione verso la dimensione del classico?


SB - Perché di fronte ai classici riesco ad emozionarmi. Davanti alla pittura classica, soprattutto quella del primo rinascimento, o di fronte alle sculture ellenistiche, spesso mi emoziono. Riconosco una forma che risuona in me come familiare, a volte più che nelle opere moderne o contemporanee.


BC - Quindi l’inclinazione al classico, che si avverte e si sente in vari passaggi del tuo lavoro, appare scontrarsi con una filigrana che attraversa quasi tutta l’arte della seconda parte del XX secolo e soprattutto del XXI oramai, cioè l’indeterminazione. Ovvero l’impossibilità a poter raggiungere l’organicità dei corpi sapendo che sono gia intimamente minacciati da una quantità di agenti esterni che non consentono di pensare all’integrità, all’idealità, alla purezza, ecc.. Quindi l’ideale classico dovrebbe essersi “dissolto” nella nostra sensibilità contemporanea e invece sembra anche di no, perché se tu scrivi E = mc2 sostituendo il segno di uguale con il corpo di un modello classico, annetti alla bellezza un grande peso.


SB - Quest’opera, che ho realizzato per la prima volta a Cipro poi a Bari nel 2002 e recentemente al Senko Studio in Danimarca, mette a confronto due modelli di bellezza.


BC – E come ti rapporti a questo attacco all’integrità che c’è intorno a noi, all’idea stessa che ci possa essere ancora un’integrità, una consequenzialità, una determinazione?


SB - Si tratta di prendere una posizione e mantenerla a lungo anche se non viene immediatamente condivisa.


BC - C’è un disorientamento che sembrerebbe essere l’attuale Zeitgeist, un sentimento di oggi che alcuni pensano sia conseguente a scelte successive che ognuno di noi ha fatto. Il tempo ha da qualche parte dei registri che sono abbastanza solidi. Se tu pensi alla giornata di un monaco buddista non c’è confusione, quindi la confusione appartiene a un determinato ambito dell’inquietudine delle società laiche.

Mi interessa sapere come pensi il tuo lavoro rispetto a tutto ciò.


SB - Quello che noi vediamo è sicuramente una piccolissima parte di ciò che in realtà esiste e l’arte ha probabilmente oggi il compito di indagare e svelare tali mondi.

Per fare questo possiamo benissimo agire dall’esterno.


BC - L’arte è qualcosa che sta fuori..


SB - Sì, per me sì. L’arte che mi piace fare, resta fuori e comunica altro da quello che ci viene proposto dalla cultura cosiddetta di massa. Non è una fuga. Per me è proprio una necessità restare in questa dimensione.


BC - Alcuni artisti invece vanno ‘in diretta’, offrono la realtà tale e quale, come sinonimo d’arte a tutti i livelli. È il caso di alcuni tuoi coetanei, mentre altri, non della tua generazione, usano l’arte come veicolo di presentazione della materia e non come rappresentazione simbolica. Mario Merz usa le fascine di legno, presenta del materiale direttamente tratto dal reale ma non per questo è meno sognatore, meno poeta; tramite l’uso della serie di Fibonacci ha un rapporto scientifico ma anche di tipo visionario con la natura e con la realtà...


SB - Certamente questo è un momento che m’interessa… la possibilità di mostrare un altro mondo.


BC - La tua posizione però appare più distaccata dal reale, come hai affermato poco fa; ritengo sia interessante come posizione in sé e sto osservando in questo momento che non è l’unica quella tua; anche in altri artisti della tua generazione è netta la distanza dal reale.


SB - Una distanza che è anche una distanza propria del punto di vista se vuoi. Una distanza che possiamo notare nel rinascimento italiano che, osservavando il mondo attraverso un foro ci ha condotti a quello che oggi abbiamo e sappiamo. Intendo affrontare il mondo attraverso una distanza necessaria. Non è detto che uno debba immergersi completamente nel reale.


BC - No, questo assolutamente no. Un altro elemento che si evidenzia dopo il periodo d’esordio, chiamiamolo così, del lavoro, è l’impiego della luce. L’osservo in più circostanze e in più lavori: la luce al neon riscrive la famosa formula di Einstein nell’opera 299.792,458 Km/s, come emanazione sotto il piccolo letto di REM; in Cosmos, in Giardino segreto realizzato a Spoleto nel 2002, in Croce di Cortona, in Colui che osserva e in questo piccolo studiolo intitolato Scriptorium che ricorda il San Girolamo nello studio nelle versioni di Dürer o di Antonello da Messina. Insomma l’uso della la luce diviene frequente: anche nell’annunciazione di Ecce ancilla domini che tu ricostruisci nella traiettoria dalle labbra all’occhio. Parliamo allora di questa luce come materiale, come aspetto che si coniuga alla velocità, alla dinamica. Mario Merz scriveva sempre i numeri della serie di Fibonacci in neon con un trattino finale perché diceva che i numeri vanno di corsa, c’era sempre nei suoi lavori l’allungamento del numero, una specie di coda. A lui piaceva mettere questi numeri con la coda, tu invece come usi la luce e i neon?


SB - In alcune installazioni la luce funziona da filtro, fornisce carattere allo spazio avvolgendolo in un’atmosfera che lo trasforma immediatamente in pittura. Utilizzando la luce colorata o la luce posta dietro l’oggetto ho operato sempre per ridefinire lo spazio.


BC - Il colore come elemento fautore della spazialità?


SB - Il colore come costruttore e veicolo di un possibile quadro, di una possibile pittura spaziale. Lo spazio diventa un luogo “altro” da quello vissuto quotidianamente. Osservando lo spazio invaso da una luce colorata si entra nella dimensione pittorica molto più facilmente. Ho anche utilizzato la luce nel senso del calore, per “scaldare” le strutture che a me apparivano troppo fredde, come nell’opera esposta al Museo Pecci di Prato. Lì ho sostituito uno degli elementi modulari con un neon rosso: la notte illuminava sia il corpo della scultura che l’edificio del museo. Questo creava anche un’atmosfera, uno spazio, un mondo, un’energia che avvolgeva il corpo stesso. C’è poi anche una riflessione sul fatto che la luce sia il mezzo attraverso il quale la forma si fa immagine.


BC - Il problema della luce tuttavia, con altri esiti, è presente anche in tutte le opere che hanno una struttura specchiante: la porta Open, la scala Ponte. Naturalmente lo specchio è veicolo di riflessione della luce, oltre che dei corpi. La presenza della luce è fondamentale, qui però essa assume una valenza diversa: luce come sprofondamento.


SB - Si, certamente gli specchi trasformano la realtà in pura luce. Sappiamo e intuiamo che il soggetto osservato non è la realtà ma il suo riflesso. Lo specchio ci da la misura della inconsistenza del mondo. C’è una leggerezza nei lavori con gli specchi per cui ogni corpo si alleggerisce e diventa quasi etereo.


BC - Questo è molto vero e si può notare in molti casi che l’arte ci propone.

Mi riferisco non solo all’esperienza dei quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto ma alla più recente Cabanne éclatée aux quatres salles realizzata a Villa Celle da Daniel Buren, un’architettura in mezzo allo spazio che aveva proprio come esito questo alleggerimento, sfondamento, annullamento quasi fisico dei muri che venivano azzerati dal rivestimento specchiante. Nel lavoro Open che tu hai fatto nel 2005 c’è di nuovo lo Zeitgeist, che lega e coniuga anche il lavoro degli artisti tra loro in un determinato momento. Esisterà pure una ragione che spinge a questo alleggerimento, alla volontà di perdita del corpo, della fisicità?


SB – Probabilmente. Nel mio caso riguarda comunque il rapporto con l’armonia che implica leggerezza.


BC - Un altro aspetto interessante del lavoro, presente nell’esperienza del Castello di San Terenzo a Lerici, è quello della composizione di forme attraverso una molteplicità di elementi; ognuno di questi elementi, definiamoli atomi o molecole, ha una compiutezza perché è un piccolo universo, dove tu lavori molto sulla superficie liscia, sei interessato alla morfologia tondeggiante e all’assorbimento del colore dentro la materia.

A proposito di questo lavoro, una delle prime formulazioni che hanno avuto questo carattere è stata quella di Tony Cragg ottenuta con la raccolta di analoghi materiali del medesimo colore, aggregati insieme per comporre una figura. Qual è la diversità che tu ti senti di poter affermare oggi rispetto a quel tipo di bricolage ottenuto nel caso di Cragg, trovando delle cose belle e pronte, quindi realizzando ready made assistiti, mentre qui invece è tutto fatto da te?


SB - Si, e con un processo molto lento. Ho chiamato quest’opera Forme del tempo perché esse contengono e mostrano il tempo della propria crescita e possono assumere infinite variazioni. Credo tuttavia che la differenza con le composizioni di Cragg risieda soprattutto nella possibilità che le mie forme offrono, di proseguire con lo sguardo all’infinito, allontanandosi e avvicinandosi fino ad entrare nel microcosmo della materia che continua comunque a rivelare mondi sempre diversi.

Questo non avviene in Cragg dove lo sguardo si ferma al nudo oggetto.


BC - Un sistema cosmico dove tutti i mondi si attraggono e compongono in questa forma ideale, bilobata, che alla fine è un organismo pittorico e anche plastico.


SB - Sì anche plastico perché mette in gioco lo spazio della visione


BC - Finora abbiamo parlato di molti lavori, a volte apparentemente distanti tra loro ma che esistono in una forte relazione l’un con l’altro.


SB - Io ritengo, nonostante come tu dici le loro apparenti distanze formali, che essi siano in ogni caso delle basi, dei pilastri sui quali poter costruire poi …


BC - Ecco, costruire cosa?


SB - Una cattedrale ideale, che non sarà mai finita e che occupa uno spazio completamente interiore.


BC - Uno spazio verso l’armonia?


SB - Si, penso che tutti questi lavori costituiscano una base. Però ognuno di essi naturalmente è…


BC - Unico?


SB - Finito. Ognuno ha una sua funzione, una sua ragione.


BC - Questo tuo modo di lavorare ti pone un problema di coerenza formale all’interno di una ricerca più ampia che può anche essere incoerente, naturalmente dal punto di vista morfologico?


SB - Si, il problema della coerenza formale affiora come dubbio, ma viene continuamente…


BC - Scalzato dalla circostanza che ti induce il lavoro?


SB - Scalzato dall’esigenza dell’opera, che non vuole essere fatta se non in quella forma: spesso è l’opera stessa che ti spinge a modificare il tuo progetto iniziale. La forma in sé, nella sua ragione d’essere, è già coerente.




BC - Talvolta, nella mente di un artista c’è un progetto, un disegno. Ecco. Tu ne hai uno?



SB - No. Io non riesco a vedere alcun progetto preciso, ma se esiste potremmo chiamarlo scoperta.


BC - Per questo che tu definisci come scoperta, per questa sorta di progetto, che cosa ritieni sia importante e necessario? Guardi per esempio spesso all’opera di qualcuno che ti ha preceduto o di tuoi coetanei?


SB - No. In questo momento cerco di guardare solamente a ciò che ho fatto.


BC - Rifletti su quello che hai fatto. C’è invece stato un momento in cui hai guardato qualcosa?


SB - Spesso. Soprattutto nei primi anni di studio all’Accademia. E’ stato un passaggio obbligato. Non potevo intraprendere un sentiero senza conoscere le strade principali. Non si può fare a meno di osservare, ne ignorare quello che ci accade intorno, ma poi tutto deve depositare lentamente in attesa di una rivelazione.


BC - C’è più interesse verso l’attualità del tuo tempo oppure verso la storia?


SB - C’è sempre un doppio sguardo rivolto alla storia dell’arte da una parte e all’attualità dall’altra.


BC – Mi era sembrato che tu avessi una curiosità nei miei confronti, volevi sapere qualcosa da me?


SB - Sì, ma nelle tue domande ho già trovato le risposte.


(testo pubblicato in catalogo "Stefano Bonacci", Spoleto 2008, Conversazione registrata in Umbria nel mese di febbraio 2006)