Alessandra Olivi

intervista a Stefano Bonacci


Alessandra Olivi - Nel corso della tua carriera mi sembra ci siano stati almeno due punti cruciali: agli inizi, il Corso Superiore di Arti Visive alla Fondazione Ratti con un visiting professor del calibro di Allan Kaprow e nel 2008 la partecipazione alla XV Quadriennale di Roma. Che importanza hanno avuto questi due eventi per la tua formazione e per la tua affermazione come artista?


Stefano Bonacci - Questi sono stati sicuramente due momenti fondamentali. Ma devo dirti che molte volte i momenti più impor tanti per un artista non sono quelli che vanno ad arricchire il proprio curriculum con nomi di artisti famosi o di luoghi espositivi prestigiosi. In realtà l'opera si compie e si rafforza in circostanze misteriose, quasi mai eclatanti.


AO - Nel tuo lavoro sembra esserci una forte componente concettuale, tesa a indagare la natura delle cose...


SB - Si. Ma solo apparentemente. Voglio dire che per me il concetto non ha grande importanza, cioè non elaboro un'opera concettualmente. E' vero invece che è l'opera a produrre concetti.


AO - A leggere i titoli delle tue opere appare evidente la loro importanza per la lettura e la compresione del tuo lavoro. Qual è il ruolo che affidi loro?


SB - Il titolo è un nome. Scegliere un nome può risultare molto semplice o molto complicato, come quando si deve scegliere un nome per il proprio figlio. Molte volte non sappiamo dare una ragione del perchè in quel momento si è deciso per Antonello piuttosto che per Piero. Per cui non so se l'opera si comprenda meglio attraverso il suo titolo, anche perché qualche volta non sono io a darlo.


AO - Tu hai esplorato tutti i linguaggi, dalla pittura alla fotografia, passando per la scultura e l'installazione, e non a caso il tuo corso è “Installazioni multimediali”. I diversi media hanno scandito fasi diverse del tuo percorso? 


SB - Più che scandire fasi differenti del mio percorso, si sono rivelati compagni di viaggio assai piacevoli e preziosi che non mi hanno mai abbandonato. Sono sempre al mio fianco e aspettano il proprio turno per potersi mostrare.


AO - Come sei arrivato all'introduzione della luce, sotto forma di neon, nei tuoi lavori? E quale significato ha?


SB - Il neon appare in maniera dirompente con Fontana nel 1951, dopodiché entra velocemente a far parte dei materiali dell'arte né più né meno del pennello e della tavolozza. Se vuoi, ti racconto quando ho utilizzato il neon per la prima volta... Fu in occasione di una mostra alla Galleria Comunale d'Arte Moderna di Spoleto. Decisi di realizzare un ambiente visibile solo da una piccola feritoia. Questo doveva essere una sorta di studiolo, un luogo mentale dove la materia apparisse di pura luce e dove gli oggetti avrebbero dovuto galleggiare come in assenza di gravità.

Disposi allora sotto un tavolo un lungo neon di luce rossa che fu la soluzione al problema delle ombre e quindi del peso della materia. Da lì in poi il neon è riapparso spesso nelle mie opere e quando ce n'è bisogno l'utilizzo.


AO - Le tue opere hanno uno stretto legame sia con la natura (penso all'impiego di materiali naturali, ma anche all'allestimento in esterno di opere site-specific che dialogano con l'ambiente) che con la tecnologia e la tecnica. Come ti districhi tra questi due apparenti opposti?


SB - Come tu dici, questi due opposti sono solo apparenti. Non si pone quindi alcun problema per me nell'affrontarli. Natura e tecnologia si fondono e si confondono continuamente lungo il percorso.


AO - Un'altra costante è l'interesse per la geometria, per il rapporto spaziale e geometrico che si instaura tra le forme e l'ambiente naturale...


SB - Anche questo è vero. Nascere in un paese che ha dato vita al Rinascimento significa dover fare i conti con la storia e con il paesaggio. In un modo o nell'altro ogni artista italiano si trova ad affrontare questa croce e delizia, ma in nessun caso può permettersi di ignorarne l'esistenza. 


(testo pubblicato su Piacere Magazine, Perugia 2010)