Gianluca Poldi

Uscire da Piero.  Solo l’emozione resiste



Piero è folgorante non tanto e solo nella perfezione formale, ma nell’emozione che la sua opera suscita per quella potenza del gesto, anche minimo come nella Madonna del parto di Monterchi, reso assoluto nel rigore luminoso e geometrico.


Uscire da Piero significa passare di lì. Attraversare luce e misura – e la luce della misura – di Piero della Francesca per entrare in una intima relazione tra rigore della geometria e mutevolezza del paesaggio, anche biologico, rigore del gesto pur umanissimo e umanità di sguardi pur nel tessuto matematizzato di linee di fuga, punti di distanza, stereometrie. E tenere viva, nell’attraversamento dell’arte, nel lasciare alle spalle come si fa per la propria madre venendo al mondo, quella capacità emozionale che fa sintesi nell’occhio. Sintesi di forme irregolari e regolari, anche sintesi di differenti metodi e approcci; per non dire del tenere insieme in tutto questo il mutare di se stessi, il crescere, lo sviluppare sensibilità e attenzioni, passioni o distrazioni nuove, e tenere vive alcune delle cose che ci si fanno incontro nel caso o nel destino – poco importa – durante il percorso. Il processo del rendere coesa la frammentarietà del reale, del rendere in una sintesi coerente il molteplice, opportunamente classificato, interpretato, mondato o perfino emendato.

Cohaerere impossibile, diciamolo subito, almeno in apparenza, tanto è difficile la sintesi nella contingenza e prossimità degli opposti. E vita, lavoro di una vita.


Trovare una misura significativa, un tema forte su cui lavorare, su cui mettersi in moto, passando da quell’arte, dai vertici filosofici di un rinascimento così eclettico nelle sue passioni e nel folle presumere di poter tenere tutto unito in un sistema, ecco l’incipit di Stefano Bonacci. Al centro di tutto, motore di tutto, l’occhio. La forma che l’occhio ci dà del reale.

Incipit favorito dall’adesione del rinascimento italiano alla prassi prospettica, dove prospettiva è possibilità di un cosmo ordinato, elemento di unificazione delle forme, specchiatura aritmetico-geometrica del reale mirante a offrire allo sguardo una maggiore coerenza al di là della albertiana finestra da cui si vede il mondo.

La prospettiva: fortissimo legame tra scienza – matematica e ottica – e poesia – intesa come sguardo e storia. Discipline nel Quattrocento e Cinquecento sapientemente ancora non separate, parti comuni del tessuto dell’uomo.

Scriveva infatti Leon Battista Alberti: “La prima cosa nel dipingere una superficie, io vi disegno un quadrangolo di angoli retti grande quanto a me piace, il quale mi serve per un’aperta finestra dalla quale si abbia a vedere l’istoria”1#. Non è tanto illusione dello spazio, come vorrà essere più tardi, non è tanto e solo meraviglia visiva, sfondamento di spazi, teatro per gli occhi e per i sensi, è primariamente collocazione dell’uomo nel mondo, solido ancoraggio delle figure, dei gesti, degli eventi, costruzione di un tutto che con la matematica innerva le arti e il cosmo.

Tanto da poter affermare che non esiste storia – uomo – senza spazio, e non è spazio senza piramide visiva, che dalle cose ha vertice nell’occhio.

Anche la matematica galileiana (e per certi aspetti anche quella assai più complessa, newtoniana) che si prova a regger l’universo ha parte delle sue radici qui, nell’aver riconosciuto, come già i greci, come il medioevo di Dante, che la geometria è cardine, almeno descrittivo, delle forme del visibile e dei suoi fenomeni. Nel Codice Atlantico Leonardo cita la Perspectiva Communis di John Peckham (XIII secolo), notando il sommo ruolo che ha la prospettiva nell’unire la certezza della speculazione dimostrativa propria delle matematiche al diletto contemplativo del vedere, a gloria della natura: “Intra li studi delle naturali considerationi la luce diletta di più i contemplanti; in tralle cose grandi delle matematiche la certezza della dimostratione innalza più preclaramente l’ingegni delli investiganti; la prospectiva adunque è da essere preposta a tutte le tradizioni e discipline umane, ne ’l campo della quale la linia radiosa complicata dà e modi delle dimostrationi, in nella quale si truova la gloria non tanto della matematica quanto della fisica, ornata co’ fiori dell’una e dell’altra”2.


L’incipit di Bonacci si mette nel solco, tra l’altro, del percorso di grossa parte dell’arte del Novecento, a partire dall’assunto cézanniano di una natura tutta coni, cilindri, sfere, fino alla fedeltà visiva così forte del Giacometti post surrealista che lo porterà a distorcere – per fedeltà alla visione – figure e forme in un controcanto che è inevitabilmente anche esistenziale.

La misura è vicinanza e lontananza insieme. L’occhio deve muoversi punto a punto per riprodurre nel dettaglio tutta la forma che ha di fronte, deve ripercorrere i tratti di una linea per figurarsi correttamente la linea. Infatti allontanarsi non garantisce comunque di poter contenere in un solo sguardo, ossia in una posizione fissa della pupilla, l’insieme, al massimo un dettaglio di dimensioni minime.

L’occhio misura muovendosi, e muovendosi avanti e indietro, puntando e distogliendo lo sguardo, tornando via via anche ai medesimi temi, riponendovi la mente, proseguendo lo scavo, dissodando. Apertamente.


L’occhio sintetizzato nella forma di Iride (1998) ha per pupilla un vasetto rivestito di foglia d’oro, ricetto di luce ed esso stesso luce, forte come un’icona perché piccola pupa: possibilità di fare abitare l’immagine, la forma del mondo, sulla retina di chi con quell’occhio osserva. Vaso e casa. Concavità che pare convessa. Intorno, una matassa di filo metallico che s’approssima alla forma circolare, limitare dell’iride, confine tra un interno e un esterno, e moto vorticoso, e segnale di un orbitare intorno al cuore dell’occhio. Per analogia con quest’opera, è quasi un occhio ad essere segnato sulla sommità della scultura Head, di un anno precedente. Centro concentrico irradiante come un’antenna.


La Casa del pittore (1998) si regge su elementi visivi. Sulla vista. I dodici (3x4) cubi che come pilastri la sorreggono ai quattro vertici inferiori portano sulle loro sei facce immagini di opere dell’artista, che possono essere variamente disposte, ricombinate, come termini di una grammatica, e termini di continuo confronto. Su quelle basi viene la casa, la stessa di Domus aurea (1997), senza pareti, completamente attraversabile, solo indicati gli spigoli, la cornice d’una porta, il tetto, una sorta di mensola interna o principio di piano intermedio. Lavoro originario, nasce insieme alla Stella, e delle stelle in metallo – in tubi d’ottone tenuti insieme dalla tensione del filo di ferro interno, strutture autoportanti quindi, particolare non secondario – non ha né la tecnica costruttiva né l’aspetto, ma ne ribadisce la forma aperta eppure solida. La casa è concetto nelle menti, alimentata dalla vista, dall’aperto dei sensi. Luogo interiore, però aperto. Il contorno di porta, indicazione di soglia, del lavoro specchiante Open (2005) è ancora elemento di casa e – mutatis mutandis – della stella, cioè regolarità impiantata nel paesaggio, nella natura di un parco e quindi nell’artificio in cui uomo e naturale si incontrano, dettando reciproche regole. Il rivestimento di specchi riflette il contesto e per certi versi misura, confronta, geometria e natura, nella grande casa dell’uomo, sopra il suolo. Era specchiante, e con cornice dorata, anche la finestra pure detta Domus aurea del 1999, inserita dentro una vera casa. Il nesso tiene e si rafforza: il Ponte (2004, pag.15) è piantato dentro una architettura, di cui moltiplica frammenti sui gradini a specchio, inducendo quindi lo sguardo a uscire verso il paesaggio di San Casciano dei Bagni e, insieme, facendo entrare colline e cielo dentro il costruito.


Il nucleo tematico della soglia è presente con forza nel lavoro di Bonacci, e fa tutt’uno con quello della vista, che è di fatto soglia come e forse più di ogni altro senso. E’ un tema spesso presente nelle installazioni ambientali con luce al neon, nelle quali è stabilito un diaframma tra due spazi (interno ed esterno) dell’opera, piuttosto che tra osservatore e oggetto osservato. Si tratta rispettivamente dell’ambiente di un edificio connesso realmente o idealmente con un esterno (Ecce Ancilla Domini, 2005; Croce di Cortona, 2003), e di quella sorta di camere ottiche (Giardino segreto, 2002; Colui che osserva, 2004) che

vincolano il punto di vista sull’interno-opera, ricordando in parte gli studi sulla corretta restituzione del reale compiuti da Brunelleschi, da Dürer, da Canaletto e da molti altri fino alla camera stenopeica, alla camera oscura e alla fotografia. Il diaframma con fenditura di questi ultimi due lavori, in particolare, distingue due luoghi e due identità, quella dello spettatore da quella dell’artista, creando tuttavia una forte intimità tra loro, facendo penetrare l’osservatore dentro un mondo dai connotati misteriosi, ma caratterizzato da alto rigore geometrico e spaziale. Mondo colorato di un rosso quasi da camera oscura, luogo in cui si sviluppano e portano a luce nuove immagini.



La straordinaria scultura Studio di testa del 2005 prosegue con efficacia emozionale la ricerca intrapresa in tali termini almeno otto anni prima con gli studi bidimensionali su supporto fotografico. La ricopertura dipinta a maglia triangolare della testa – calco di quella dell’artista modellato in gesso e dipinto – costruisce un reticolo che è una preliminare mappatura del volto, e questo viene trattato come un paesaggio da restituire con la sua (tri)dimensionalità, secondo modalità a livello visivo analoghe a quelle adoperate dalla moderna cartografia. La memoria corre agli studi di teste di Piero della Francesca, mappate con numeri in modo da consentire la corretta restituzione matematica in prospettiva, ma c’è ben altro. Il volto inteso quale paesaggio è soglia potente in cui la geometria, in origine misurazione della terra, diventa misurazione della testa, della sede del pensiero, e quindi anche misurazione di sé, del sé. E ancora, è soglia tra razionale e organico.


Il pensiero misurante e a sua volta misurato, proprio dell’essere umano, incardina una delle opere summa di Bonacci, del 1999, il cui titolo Ulisse è chiaro omaggio all’uomo esploratore, sempre in moto ‘verso casa’. Installazione in cui i diversi elementi – già opere in sé – dialogano come in una sacra conversazione intorno all’incorniciato ovale dello Studio di testa contenuto nella scatola aperta. Quasi un kit da viaggio, valigetta di strumenti dell’artista, di colui che dipinge il mondo rivelandone rapporti su cui raccogliere lo sguardo e il senso: accanto al chilogrammo-peso dorato un’asta piena ricorda la misura delle distanze e la profondità, come in certi dipinti metafisici di De Chirico e Carrà, quindi un cubo e una boccetta di liquido, altra potenziale unità di misura di grandezza, regge un ottaedro composto di triangoli equilateri, a lato di una sorta di riga specchiante che misura invece a suo modo lo spazio intorno, riflettendolo. Ma, ci ricorda l’artista nei Senza titolo che riportano la celebre equivalenza einsteiniana tra energia e massa (E=mc2) sostituendo al simbolo di uguale un piccolo torso di Afrodite, la vera misura è quella della bellezza – classica, in questo caso – dell’armonia, che diventa metro e metodo di paragone.

Homo mensura rerum.                                       In pulchritudo.


E’ evidente come la scienza, meglio forse l’imago scientiae, occupi nel suo immaginario un luogo poetico fondamentale. Non si tratta tuttavia di un atteggiamento propriamente scientifico nel senso tecnico del termine, quanto semmai di fascinazione: egli non studia testi scientifici né si occupa di processi e risultati di quella che tradizionalmente chiamiamo scienza, nonostante ne resti affascinato tanto da giocare con alcuni elementi del suo linguaggio. Più semplicemente e naturalmente per uno sguardo artistico, alcune immagini del mondo scientifico che egli incontra gli sedimentano nelle retine, come vi venissero fotografate. Non si tratta cioè quasi mai di un approfondimento matematico o fisico, ma di una acquisizione duplice: da un lato l’intuizione del potere evocativo dell’immagine scientifica, connesso al suo rigore formale, alla sua densità-concentrazione di senso e al suo ruolo di rappresentazione del mondo, dall’altro la convinzione che il mondo non venga dalla scienza spiegato bensì dispiegato, descritto ponendone in chiaro alcuni meccanismi, giustificando gli effetti delle interazioni secondo un sistema interpretativo basato su dati numerici, su quantità misurabili.

Rispetto al dato “scientifico” e alle sue interpretazioni, l’arte non può proporre altri teoremi, può invece lavorare col proprio linguaggio poetico per mettere in risonanza, tutt’al più aprire piste nel senso, comunque sempre offrire forme all’occhio, alla chimica emozionale – informulabile – dei sensi.

Offrire forme. Forme estremamente potenti, evocative, ricche di nessi, liberanti dal mondo a favore di una misura interiore.


L’artista coglie la frequenza che rende l’opera risonante per l’occhio che la contempla, o risonanti le sue parti nel tutto dell’opera.


Non esistono solo connessioni tra lavori legate alla forma, siglate da elementi che talora ritornano. Esiste anche un ritmo comune che accompagna i lavori. Ritmo proprio dell’occhio affinato che misura, ed esprime una comune matrice nell’organizzare la forma dell’opera e lo spazio. Ritmo che precisa, interpreta, scandisce lo spazio. Tempi Neri (2005). E la stessa nera piramide di Dialogo (2001), che è pure piramide visiva impossibile, altro da sé come termine di confronto.


Fertilità.                            Ubi amor


La multiformità del percorso di Stefano Bonacci, in termini di varietà di esiti prodotti in soli pochi anni, fa continuamente dell’occhio di chi osserva luogo della scoperta, senza che possa facilmente appoggiarsi alla sicurezza che danno le piccole variazioni su un tema, che pure esistono. (E nel periodo in cui il successo nel mondo dell’arte pare soprattutto segnato dal rendere il proprio lavoro ben riconoscibile, ed eventualmente minimale, qui si sceglie un profilo radicalmente diverso).


La distanza formale di alcuni suoi lavori ha almeno una scaturigine fondamentale: una polarità che una foto di Dialogo esemplifica, nel porre fronte a fronte artista e rigore geometrico del solido.  Distanza è termine appropriato, perché esistono almeno due poli, e due poli in costante dialogo, quel dialogare incessante che Bonacci tiene vivo per tenerli insieme senza forzature, nella serie di atti immateriali e materiali che costituiscono la creazione. Il polo dello spiritus geometricus, da una parte, dominato dalla regolarità, dal rigore modulare, dall’altra quello dello spiritus naturalis, che riflette sulla natura, nel suo duplice aspetto delle forme regolari e irregolari.

Tra i due poli la tangenza fortissima è ovviamente nelle forme più regolari che la natura presenta, sia del mondo inanimato che di quello biologico, e vediamo con evidenza per esempio nei cristalli, in fenomeni autoorganizzativi, nelle celle di convezione, nelle lamine saponate, in microrganismi come le diatomee, nell’accrescimento di alcune muffe o funghi, fin nella crescita di alcune piante, e animali, per altri versi nella relativa regolarità su vasta scala di corpi celesti.

Per non dire delle leggi della fisica, dal micro al macrocosmo.

Dove la scommessa del dialogo è maggiore, per difetto di somiglianza, per l’ampia lontananza, per la difformità evidente alla vista di fenomeni, di esistenze, che pure vivono abitualmente nel nostro campo visivo, è tra il luogo della geometria, ideale outopos strutturale, e il mondo della natura irregolare. Mondo naturale che sa essere irregolare e fantasioso come nelle Forme del tempo (2004), pur riproposte, ricomposte, in profili regolari.

Irregolarità che innerva a tutti i livelli l’espressione umana. E irregolare è il moto della mente, la prassi creativa nei suoi spunti, nessi, attività. Perché non regolare è il moto dell’occhio che cattura il procedere della luce riflessa dalle cose per formarsi il mondo, il suo paesaggio. Irregolare è la prassi costruttiva delle mani, sia il modellare nella creta come in Eros (2001-2004) o nella cera come in Frattale (2001), sia tendere un filo e attorcigliarlo per garantire la stabilità della regolarissima Stella (1997-2005) o dei Diamanti (2000), piuttosto che la forma a nido di 25ore (1997).

Aver visitato lo studio di Bonacci, nel corso degli anni, persuade sull’importanza fondamentale che riveste per lui la sperimentazione di materie e (conseguentemente, ci pare) di forme, dice di un enorme gioco del costruire – e del suo complementare smontare – che è generalmente relegato all’infanzia e che invece fa parte strutturale della sua attività. Tanto che spesso disfa le proprie opere, reimpiegandone parti in altri lavori, ben sapendo che continua la loro esistenza nello spazio di un altrove: il ricordo, la fotografia, la possibilità di rifarle.

Curiosissima questa attitudine, che è anzitutto capacità di incantarsi, come può avvenire nella magistrale fucina del mago Alexander Calder tanto quanto negli studi di alcuni inventori, o nei laboratori dove si maneggian le scienze.

Ci soccorre l’etimo latino di inventare: invenire, ossia trovare, venire incontro, e più addentro.

E, in questo, incontrando il molteplice e vario essere delle affascinanti forme del mondo, permane il distillare. Distillare forme come metodo operativo dentro questa polarità, misura, modus vivendi.


Distillare.                            ibi oculos


Non pare esistano aspetti narrativi nel lavoro di Stefano Bonacci, eppure esiste una costante attenzione autobiografica, posta verso i termini della propria prassi artistica e verso la comprensione del suo specifico modo di mettersi in relazione con il mondo attraverso la vista, il tatto e il fare. Non solo, nelle opere più marcatamente ambientali, in cui più elementi sono in gioco, si ha a volte l’impressione di trovarsi di fronte a un discorso interrotto, in cui l’immagine si fa quasi allegoria, per quanto mai si abbia finora evidenza di un racconto: l’immagine è semplicemente folgorante come una epifania. E’ questo il caso delle installazioni compiute tra 2002 e 2005, da Giardino segreto a Colui che osserva, a Scriptorium, a Ecce Ancilla Domini, a Croce di Cortona, eseguita nella Rocca di Girifalco, sopra la città. In esse è come esser giunti sul luogo d’un avvenimento che, pur ricco di implicazioni, di nessi, ci resta misterioso, nel complesso inattingibile. Sempre assenti i personaggi, le figure, lasciando a noi di occupare lo spazio circostante, in compagnia della luce.

Si tratta di opere in cui sempre compare un elemento lineare, luminoso, che è linea d’orizzonte, è metro e, nel solo caso di Ecce Ancilla Domini, è linea di congiunzione di un esterno e di un interno, cenno a un’incarnazione che inspiegabilmente, misteriosamente, si attua nella quotidiana umiltà di una casa.

Molti sono gli indizi che questi lavori – eccettuando Colui che osserva, che in specie ci indica il ruolo di camera ottica rivestito da questi spazi – possano essere attraversamenti di altrettanti temi della storia sacra già luogo privilegiato di espressione per generazioni di pittori. Dalla scena dell’Annunciazione cui evidentemente si allude fin dal titolo in Ecce Ancilla Domini, all’altare-sepolcro con il vasetto dell’unguento in Giardino segreto, col tavolo reso mirabilmente sospeso dalla luce e col cristallo-stella non completato (!) che sfonda coi suoi profili di luce la parete di fondo, alla Croce di Cortona, fortissimo richiamo alla scena della deposizione, con l’audace invenzione della scala quale lignum crucis e del prolungarsi della scalinata verso la finestra-oltremondo, con duplice soglia di luce. La scala che anche in precedenza era adoperata come misura, distanza, coniugazione di punti, di due luoghi, qui fatta coincidere con il simbolo più alto del mistero del Cristo finisce anche per ricordare, con ulteriore risonanza propria di un simbolo, l’episodio del sogno di Giacobbe, della scala angelica.

Infine, lo Scriptorium, come l’intimo spazio del San Girolamo di Colantonio a Capodimonte o quello di Antonello da Messina, oltre la soglia, con le parole di luce della Sibilla Porrina che preannuncia la nascita di Santa Rita da Cascia che incidono la coperta d’un libro. Contrappunto ad Ulisse, in dialogo con Ulisse.


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(Testo critico pubblicato nel catalogo monografico "Stefano Bonacci", Spoleto 2008)