Aldo Iori

Lo sguardo, lo spazio e la natura



Una formazione inquieta e curiosa


Lo sguardo posto sulle pagine di un libro rinnova oggi i legami con gli eventi visivi vissuti. Questi giacciono nella memoria dell’osservatore privilegiato e si riaccendono allorquando qualcosa di nuovo è donato e si aggiunge all’esperienza della visione. Dopo anni di osservazione è sempre più necessario ripercorrere i tempi, soffermarsi sui particolari ed analizzare i nessi e le evocazioni che determinano le ragioni di un percorso. Così ciò che sembrava mancante appare più completo e ciò che si giudicava intuitivo acquista la forza di una precisa volontà.


Da poco più di un decennio Stefano Bonacci propone opere che spaziano in ampi settori dell’arte contemporanea con un’inusuale determinazione e costanza. Già negli anni della formazione accademica perugina le sue scelte formali apparivano indicative della volontà di voler costruire un percorso,  operando delle scelte che aprissero nuove formulazioni e rinnovassero possibilità. Nella prima metà dei Novanta ciò pareva, come in parte anche oggi, non poter aprire prospettive a un giovane che non praticasse con maestria una facile leggerezza di pensiero e un disinvolto uso di mezzi tecnici ammalianti e necessariamente omologanti tout court di una qualità.

La presenza in accademia a Perugia di docenti intenzionati a focalizzare, sui quesiti piuttosto che sulle immediate risposte, l’attenzione di studenti che si affacciavano al giacimento culturale della storia dell’arte (Bruno Corà) o alle questioni della pittura (Antonio Gatto prima e Sauro Cardinali poi) diviene una buona occasione di crescita per un folto gruppo di giovani tra i quali vi è Stefano Bonacci. Il luogo di formazione fornisce possibilità di confronto con artisti ospiti, con altri docenti particolarmente attenti e con altri colleghi più esperti. In città alcune associazioni culturali e gallerie tengono alto il livello del dibattito e propongono un rapporto ‘vis à vis’ con l’arte contemporanea.

I giovani che iniziano a cimentarsi in gruppo o singolarmente, anche con caparbietà, presunzione e autonomia, sembra vogliano verificare la possibilità di elaborazione e progressione di ciò che con curiosità osservano, studiano e di cui sono testimoni.


In questo clima Stefano Bonacci acquisisce pronta coscienza che per la sua formazione sono necessari ampi respiri di pensieri differenti e costanti evasioni dal territorio umbro. In quest’ottica sono comprensibili la scelta di un corso presso la Fondazione Ratti di Como con l’artista Allan Kaprow , l’apprendistato presso lo studio degli artisti Remo Salvadori e Renato Ranaldi, la borsa di studio in Gran Bretagna presso l’artista Chris Sacker e i rapporti personali cercati nell’ambiente artistico non solo italiano.

Le prime esperienze espositive sono realizzate sulla soglia del diploma sia in ambito accademico che autonomo; le opere sembrano trovare luogo di autoconvocazione in studi fotografici, castelli abbandonati e librerie antiquarie. Le occasioni di partecipare rispondendo a specifici inviti a mostre, che prendono in esame le tendenze della nuova giovane arte, non mancano fino al 2000 quando la sua presenza a Futurama presso il Centro per l’Arte Contemporanea di Prato segna un impegnativo confronto, in un’importante sede istituzionale, con un foltissimo gruppo di colleghi. La giovane realtà artistica italiana appare in quell’esposizione variegata, interessante per le proposte ma a volte troppo tendente al clamore e nel complesso anche molto lontana dalla linea di pensiero che Bonacci sta cercando di affinare attraverso la pratica di metodologie rigorose seppur apparentemente disparate con un’attenzione  poliedrica nei riguardi delle forme, dei materiali e dei linguaggi.

Gli anni seguenti, seppur caratterizzati ancora da una parsimonia di esposizioni personali, segnano tuttavia la generosità di partecipazioni a confronti pubblici e del farsi promotore, con altri giovani colleghi in Umbria, di situazioni associative che con continuità propongano idee e occasioni di crescita.


Da un primo sguardo d’insieme alla produzione artistica di Bonacci appare evidente il suo interesse ad operare su differenti livelli che seppur a volte distinti, nella maggior parte dei casi risultanti continuamente intersecati l’uno con l’altro. La natura è oggetto di specifica attenzione ed essa viene intesa sia come fenomeno che elemento portato alla visione; il pensiero speculativo di riferimento investe le problematiche che riguardano l’artificialità, il rigore metodologico, l’uso della geometria e della proporzionalità di derivazione classico-rinascimentale; l’elaborazione e l’uso di tecniche disparate sono adottate secondo le procedure d’intervento scelte a seconda della specificità dell’opera, dalle più tradizionali all’uso della luce del neon o all’elaborazione informatica; il costante interesse, infine, la questione del rapporto tra l’opera e lo spazio-tempo nel quale viene collocata e nel quale trova confronto con lo sguardo dell’osservatore viene intesa ancora aperta e oggetto di riflessione.  

La considerazione di questi fattori induce l’artista ad un modus operandi generatore di un percorso che se ad una superficiale visione può apparire come una rimproverabile incoerenza stilistica, questa diviene nel tempo elemento di forza, di rinnovamento e di libertà. Egli è indotto così a mantenere vivi più livelli di profondità del lavoro nel suo insieme, poiché la linearità stilistica, intesa tout court come facile riconoscibilità iconografica e linguistica, potrebbe essere invece nel suo caso fuorviante e generare perdita anziché arricchimento.


Una questione naturale


Fin dai primi lavori si nota l’interesse di Bonacci a confrontarsi con ciò che è altro da sé e che egli individua negli elementi naturali che trova, seleziona e modifica. Egli tende ad osservare la natura cercando di trovare in essa l’armonia che l’arte di ogni tempo ha tradotto in opere e che il pensiero razionale ha individuato e studiato.  L’arte diviene così strumento primo per l’osservazione e la definizione di un rapporto che conduca, all’edificazione dell’opera. Questa, dopo l’alchemico percorso di trasformazione della materia, risulta sostenuta anch’essa da parallele regole e processualità. Il controllo intellettuale è rigoroso quanto talvolta empatico. L’artista, come parte esso stesso del mondo, osserva ed è spinto necessariamente al fare avendo come fine non l’utile funzionalità meccanica né la curiosità esplorativa ma la costituzione di un dono che contenga in sé l’immagine del pensiero sul mondo.


Con queste premesse Stefano Bonacci inizia la sua azione di verifica del mondo e la sua conseguente produzione di opere. L’analisi e la raccolta catalogatoria, alla maniera di Karl Blossfeldt, segnano il suo stupore di fronte alla continua conferma di un’identità tra la forma pensata da parte dell’artista e la forma ritrovata nel mondo vegetale e minerale. Questo pensiero determina opere che vanno dalla creazione nel 1995 di un microcosmo adagiato sul tavolo anatomico della mostra WAR al dispiegarsi nel 2005, nella mostra a Trebisonda a Perugia, di una copiosa serie di elaborazioni formali: due eventi lontani nel tempo ma che segnano la maturazione di un medesimo approccio metodologico del fare artistico alla condizione della natura.

Nel primo caso gli oggetti, legni, ossi, pietre, vengono ‘rettificati’, con l’intervento di fasciature o parziali ricoperture e aggiunta di protesi che pare abbiano sia lo scopo di sottolinearne l’interna regola sia di  creare nuovi meccanismi per la visione. Il peso degli oggetti naturali viene calibrato e le misure rilevate ed il loro contatto con materiali propri di un universo scultoreo e meccanico viene ad esaltare la loro presenza.

Sono corpi accuditi ed accompagnati allo sguardo con un’intensità che tende a riportarli ad un rapporto armonico perduto nel loro distacco dall’universo naturale dal quale provengono.

Il richiamo a Marcel Duchamp e al suo ready made è immediato (e non l’unico nell’opera di Bonacci) e su di esso si innesta la volontà di un andare oltre attraverso una processualità non evidente. Ciò che viene mostrato è solo il risultato posto all’interno di un nuovo consesso nel quale tutte le opere si mostrano congiuntamente le une alle altre come appunto in un gruppo familiare. La volontà è naturalmente quella di ricondurre ad una centralità sia dell’artefice, che svela, sia dell’osservatore scientifico, che campiona ciò che ha tra le mani, lo studia, lo modifica e in questo ne rende evidenti le regole. In questi gruppi risulta evidente una caratteristica delle singole opere: l’artista la definisce come ‘vocazione all’anonimato’. Ognuna di esse è affermativa indubbiamente di una propria presenza ma non in quanto unicum, piuttosto quale exemplum di una molteplice serie di opere possibili: come ‘quella’ foglia è nella sua bellezza indicativa della bellezza di altre molteplici foglie. 


Nelle mostre più recenti egli sperimenta, con esperto controllo tecnico, il dilagare del colore sulla superficie di gesso, sul foglio o sulla tela fino a raggiungere un’immagine interrotta in un momento sospeso che rivela un’elevata tensione verso l’idea di perfezione possibile.

Egli, anche in questi casi, presenta i risultati non singolarmente ma in gruppi che nel 2004, sia a Perugia che nel castello di San Terenzo, ricompongono la forma tonda alla quale essi stessi nel loro singolo tendono.


Il caso è nelle cose naturali ed è spesso dettato da regole complesse di cui si possono solo osservare i risultati.

La reiterazione dell’esperimento presuppone la conoscenza tecnica che sovrintende la sua elaborazione per controllare o indirizzare gli eventi. Elaborata la regola essa viene applicata nelle sue infinite possibilità di variazione dettate dal rapporto tra l’apparente caso (la regola nascosta) e il controllo intellettivo; il loro potere evocativo è indotto sia nella singola pittura sia nella soluzione aggregativa adottata. Ciò che ne risulta, sia nel ciclo di WAR che nelle Forme nel tempo, è un nuovo corpo quadridimensionale nel quale, come sottolineato nella recente titolazione, il tempo è presente. Un tempo dell’osservazione, della meditazione sull’evento e dello sguardo al quale è consegnato. Nature morte indubbiamente contrassegnate da una condizione esemplare che le distacca dal mondo fisico di appartenenza per consegnarle ad una possibile metafisica più morandiana che dechirichiana.

Il rapporto uomo natura è spesso richiamato: come nella citazione del Cantico delle creature di San Francesco impressa nell’installazione permanente Fonte a Marcellano. La sorgente è luogo di vita che determina la citazione ma anche la nascita di una forma geometrica assoluta, il cerchio nero suprematista, non oggettivo, che richiama le profondità inesplorate della tenebra del pozzo.

La natura è anche oggetto e luogo da osservare da una posizione privilegiata, come evento paesaggistico (caro all’arte umbra) con il quale l’artista e parimenti l’osservatore, deve spesso confrontarsi. Questo aspetto è spesso annunciato nelle opere che evocano il rapporto tra il luogo di partenza e di arrivo dello sguardo. L’artista quando è chiamato a realizzare opere in siti naturali cerca un immediato rapporto con la natura presente che viene chiamata in causa nella sua dualità uomo/natura, artificiale/naturale, terra/cielo. In queste opere è considerata la presenza di un orizzonte e il rispecchiarsi della natura nell’opera stessa: nel 1998 in un castello diroccato sul lago Trasimeno ciò avviene con Antenna in cui il rapporto con il cosmo è richiamato da un’iconografia ripresa dall’arte (Bruegel); nel 2000 in un orto botanico in Ortogonale una scala a pioli (su uno di essi è legata una pietra) si evoca l’ascendere al sacro ma anche l’iconografia della deposizione (Rosso Fiorentino): in Ponte a San Casciano dei Bagni nel 2004 realizza un impossibile trampolino specchiante attraverso il quale l’osservatore è invitato a traguardare il dolce disegno delle colline sull’orizzonte; in Open a Stamford una soglia specchiante si immerge nel verde di un giardino inglese. Sempre più l’opera in contatto diretto con lo spazio naturale perde la propria materialità e diviene invisibile assorbita all’interno dell’immagine del paesaggio.

La definizione dell’opera parte da un problema visivo, dalla necessità di rendere evidente il suo momento epifanico e mediante l’analisi degli elementi posti in gioco  e la considerazione della presenza di uno sguardo critico trova di volta in volta risoluzione calibrando la forma finale nel momento specifico e nella situazione spaziale dettati dalla presenza della natura.

Il momento è estrapolato da una sua condizione progressiva e reso istante sospeso in una situazione spaziale che è luogo di verifica di nuovi rapporti proporzionali assoluti.


De possibile proporzione


L’interesse per la natura lo conduce da subito a verificare anche le forme che appartengono all’universo antropometrico.

Una testa, Head del 1997, è collocabile a metà strada tra un manichino metafisico e un idealizzato primitivismo; essa viene contrassegnata da cerchi concentrici che segnano la propagazione centrifuga di onde ‘telluriche’ celebrali e contemporaneamente pongono una questione di misurazione e proporzione. Essa genera, fino a tempi recenti, studi applicativi condotti direttamente sulla propria persona come primo oggetto di osservazione. Nei molteplici Studi (1997-2005)  il proprio volto, la propria mano, la propria testa diventano luogo di verifica di quella proporzionalità pierfrancescana studiata e ritrovata negli elementi fossili, nei cristalli, negli organismi monocellulari.

I primi lavori del 1995-99 segnano la volontà di porre in contatto elementi dissimili accostabili mediante la messa in opera di attenzioni alla preziosità sia degli elementi naturali che degli interventi manuali. Il processo elaborativo della propria immagine invece è impostato in modo più accentuato sulla consapevole impossibilità sia a raggiungere un  finale perfetto compimento sia della reale inanità del compito assegnatosi di un esercizio quotidiano su forme che dipendono solo parzialmente dalla volontà dell’artista e che mimano la casistica sperimentale in ambito naturalistico. Il volto e la mano segnano una temporalità del momento dettata da una realtà contingente che la postura studiata, come in posizioni meditative e ginniche, non riesce del tutto a cancellare. Ancora esemplificazioni di una possibile progressione infinita.


La costante presenza della geometria nel lavoro di Stefano Bonacci deriva indubbiamente dallo studio dell’arte rinascimentale e dall’osservazione che essa permane come fonte inesauribile anche in molti esempi contemporanei a lui cari (Burri, Nuvolo, Paolini, Fortuna, Sacker). Essi sono stati effettuati in primis nell’accademia di Perugia nel cui corridoio d’ingresso di San Francesco al Prato campeggiano quattro stelle di Sol Lewitt di un minimalismo formale e cromatico che rimanda all’esperienza dell’arte italiana del Quattrocento ed in particolare a Luca Pacioli.

La geometria, rilevata nelle forme naturali offerte dal mondo esterno, permane salda e porta verso un deciso distacco dal reale a favore di una ricerca di forme che tendano ad una definizione ideale. Poliedri, piramidi, forme circolari e cubiche appaiono nel costituendo universo formale di Bonacci a segnare momenti espositivi particolari.

Essi, riprendendo la definizione presente in De Divina Proportione sono considerati nella duplice forma piena e vacua.  Il pieno non solo quando è forma poliedrica (Geometrie calde, 1998) o piramidale (Dialogo, 2001) ma anche quando è sagoma ombratile nera che si accampa sul volto a ricercare purezze suprematiste (Piccoli studi di testa, 2004). Già 25ore (1997) presentava un volume nel quale la semplice forma organica era risultante dall’incontro tra l’idea e la sua lunga realizzazione manuale. In essa era lasciato uno spiraglio a indicare lo spazio interno non più segreto di questo bozzolo/cipresso appeso.

I solidi geometrici divengono vacui nella costituzione di forme che paiono cercare la leggerezza, quale quella dei fiocchi di neve, adattandosi non più alla forma del volto, ma vivendo una loro condizione assoluta. Essi sono posati in luoghi esterni come ad esempio sul pavimento di un luogo sacro a Ravenna nel 1997, sul prato di un giardino a Parma nel 1998 o a segnare il ritmo di un loggiato a Camerino nel 2000.

Il solido diviene pretesto di una definizione armonica dello spazio e costituisce un esempio di una proliferazione la cui veridicità è giustificata dal pensiero che la sostiene e non più dalla sua reiterazione infinita. L’attenzione è posta al risultato che scaturisce sempre dal rigoroso metodo conoscitivo del mondo e al materiale che ne evidenzia la costruzione e la perfezione formale.

Il pensiero scientifico sperimentale riaffiora in molti lavori di questo genere: come nelle ampolle di vetro dal sapore laboratoriale utilizzate in L’oro dei Varano nel 2000, nel quale divengono basi per arcate filiformi che incorniciano il paesaggio; oppure in Purificazioni del 1999 dove l’artificio definisce la forma che risulta compiuta ma sempre reiterabile in successive modificazioni.

Anche nella più recente installazione 299.792.458 kms nel Senko Studio in Danimarca (2005) la fascinazione della scienza è sempre in agguato nel richiamo al pensiero einsteiniano o a quello di Olaf Roemer.

La formula scientifica E = mc2 descrive un fenomeno che appartiene al mondo naturale e Bonacci interviene sostituendo al segno di uguaglianza un elemento derivato dalla storia dell’arte che ci parla dell’idea di bellezza. Ancora una volta l’osservazione e la trasformazione del naturale in regola e proporzione universale.


Da luce delle cose a emanazione pittorica


L’installazione danese è la rielaborazione di un’opera presentata precedentemente a Cipro modificata nella  trasformazione della formula della relatività da segno bianco su muro nero a scrittura in neon. In modo tautologico, in questo caso viene ribadita l’attenzione che l’artista ha verso il fenomeno della luce che da molti anni è presente nelle sue opere. La scelta di materiali metallici fortemente luminosi per la loro lucidità e possibilità riflettente è fin dai primi anni indicativa di un interesse a fornire all’opera questa ulteriore possibilità. In Samurai nel 2000 le due scale poste a contrasto tra pavimento e soffitto e bloccate da una stretta legatura in ferro si accendevano di luce nella presenza di una lunga barra di ottone posta a contrasto tra di esse. Nell’installazione permanente Fonte a Marcellano in Umbria nel 2003 la luce si rifrange sul metallo rivelando la laude francescana in contrasto con il disco centrale di profondo nero assorbente. Nelle opere già citate, di  San Casciano e di Stamford o nel precedente Domus Aurea del 1999, lo specchio diviene luogo nel quale la luce solare si riflette, come anche sui piani dei liquidi inserite in molti altri lavori. La presenza delle superfici specchianti genera considerazioni sulla rifrazione, sulla simmetria, sul ribaltamento che conducono Bonacci a rappresentare il mondo alla rovescia (Düsseldorf ) o ad elaborare successivi sdoppiamenti che rendono intelleggibile la scritta in  Corpus Domini del 2005 realizzato con petali multicolori in occasione di un’infiorata popolare.

Il ricordo e il ripensare alle opere di Fontana, Flavin, Nannucci e Merz, ma anche dell’amico Vittorio Messina, induce l’artista a considerare la luce come elemento linguisticamente autonomo. Barre di neon, rettilinee, o che segnano la vibrazione di un segno, prima bianche e poi di colorazione rossa, proiezioni luminose sulle pareti, sulle architetture, sui corpi di danzatori o su oggetti  vengono inseriti all’interno dell’opera quali elementi costitutivi della stessa. Un elemento del poliedro di Prato è realizzato in neon rosso e la notte illumina la facciata del museo rendendosi evidente. In Cosmos a Perugia nel 2002 il neon diviene evocazione dell’energia di un fulmine che traversa due forme perfette e in Flumini a Spoleto nel 2004 il richiamo all’evento naturale del famoso quadro di Giorgione è immediato e decisamente voluto.


In esperienze particolari che paiono  isolate e circoscritte, la luce è proiezione di forme e disegni sulle architetture o su fondali scenografici in occasioni teatrali. La luce attraversa l’oscurità e la forma è sempre un’elaborazione di geometrie perfette che si ribaltano, proliferano e si autoconsumano. L’artista piuttosto che all’effetto stupefacente e scenografico è maggiormente interessato a porre l’attenzione alla luce quale elemento che evidenzia l’epifania dell’immagine, che genera una condizione pittorica. Questo appare chiaramente quando la luce bianca è modificata nella colorazione rossa. L’artista parla di “colore per riscaldare l’opera”. La luce da emanazione degli oggetti aumenta fino a invadere tutto il luogo della visione. Il neon è nascosto sotto o dietro le cose: il piccolo letto di REM del 2004 sembra emanare esso stesso la luce che invade la stanza miniaturizzata, così il tavolo presente in Giardino segreto a Spoleto nel 2003 o l’uomo posto a testa in giù  al Parkhaus  a Düsseldorf del 2004.


Lo spazio-tempo e il  movimento assente


Le opere più prettamente geometriche come il gruppo delle Stelle segnando un razionale allontanamento dall’organicità naturale presentano un sostanziale ‘raffreddamento intellettuale’ dell’opera assieme ad una loro vocazione più scultorea piuttosto che pittorica. Altre opere, anche contemporanee a queste, presentano invece un interesse maggiore a dare una connotazione ‘calda’ intesa in senso quindi più pittorico. La volontà ad un avvicinamento alla pittura lo induce a una riflessione su questa in relazione allo spazio che viene coinvolto.

L’artista è interessato non solo che l’opera sia costituita da un singolo oggetto, o da un’aggregazione che si presenti alla visione, ma anche all’ambiente nel quale l’opera viene collocata.

La tendenza a creare luoghi nei quali la visione delle composizioni delle opere investa prepotentemente l’osservatore è condizione sempre più ricercata. La realizzazione nel 2001, su di una parete della galleria Aletheia, della piramide nera Dialogo, intorno alla quale il visitatore è costretto a realizzare una circumnavigazione, lo inducono ad una profonda riflessione sui meccanismi della visione e sulle posizioni di chi osserva e di cosa è osservato.

In due opere successive egli realizza due vere e proprie camere ottiche. A Spoleto nel 2002 in occasione dell’esposizione collettiva De Mentis Hortis costrisce un ambiente chiuso visibile solo attraverso un foro. L’osservatore è invitato a posizionarsi e guardare l’opera da un unico punto di vista da cui è visibile un tavolo sul quale è posta un’ampolla e sul muro appare la proiezione luminosa di una costruzione geometrica. Un neon rosso sottostante il tavolo e non visibile ‘scalda’ il fluido e tutta la stanza. A Düsseldorf  nel 2004 nella mostra personale Colui che osserva una feritoia mostra l’ambiente espositivo completamente oscurato. Un alter ego dell’artista è posto rovesciato e di spalle di fronte all’osservatore, una linea bianca luminosa di orizzonte è proiettata sul muro e passa virtualmente attraverso la linea degli occhi del manichino: da esso emana una luce rossa che illumina l’ambiente. Esternamente un video riproduce il volto di un uomo, anch’esso rovesciato e virato in rosso. In questi due casi la condizione di posizione esterna è ribaltata a posizione interna al meccanismo del guardare. La luce diviene densità pittorica che investe tutto lo spazio.

La densità dello spazio leonardesco qui si traduce in richiamo ancora una volta al fenomeno luminoso come evento osservabile scientificamente. La luce conquista lo spazio e appare come elemento liquido nel quale gli oggetti proposti alla visione sono immersi. In un successivo lavoro realizzato nella biblioteca di Cascia  l’osservatore è esso stesso immerso in tale densità. Lo studiolo rinascimentale dalle forme perfette diviene luogo effettivo e tangibile nel quale la speculazione si esercita e dove è presente la sapienza dei libri antichi che rivestono le pareti.  Il tempo è metafisico, sospeso in una pneumaticità assoluta , accogliente e protettiva.

Ancora in un altro lavoro, Ecce Ancilla Domini realizzato a Spello il tubo del neon rosso attraversa la finestra spandendo la densità cromatica dalla stanza interna alla strada ribaltando anche qui le condizioni di una ‘normalità’ della visione in considerazioni di tipo fenomenico e metafisico. Nell’invito della mostra, che rielabora un’annunciazione di Van Eyck, il raggio traversa orizzontalmente la composizione partendo dalle labbra dell’angelo annunciante e giungendo agli occhi della vergine e viceversa.

La condizione spazio-temporale che Stefano Bonacci evoca è antitetica a quella della tradizione futurista. La stessa velocità della luce richiamata a Viborg è data come pensiero scientifico, non visualizzabile e non percepibile nel movimento degli ioni del neon che percorrono le lettere e

i numeri della formula di Einstein.


Ceci n’est pas un fin


Nelle opere di Stefano Bonacci tutto appare posto in gioco sempre più in un campo di confine tra ciò che ancora consideriamo scultura e pittura, in un luogo dove le regole sono forse più ferree e precise che altrove, per cui non sono possibili fughe e facili scarti laterali. La condizione dell’arte esige oggi più che mai nette prese di posizione per affermare ancora una sua possibilità a fornire vitali quesiti e possibili risposte.

Il riferirsi di Stefano Bonacci alla natura, alla condizione della visione e della costruzione proporzionale dello spazio, l’attenzione ai materiali e alla loro lavorazione lo pone in una continuamente rinnovata condizione di privilegiato artefice di sapienti alchimie visive. L’artista in questi anni sta definendo un universo particolare di opere che continuamente ruotano intorno a nodi e riflessioni alle quali di volta in volta è data possibile definizione; la questione è il luogo d’interesse e non le risposte a possibili quesiti. Non appare il fine, o la fine, a cui i lavori tendono, in quanto non necessario, poiché se esiste una soluzione essa è interna all’opera stessa e per questo mai interamente scrutabile. Ed in questo sta l’inedita ricerca dell’artista che così si inserisce in un momento speculativo del mondo artistico contemporaneo nel quale, lungi dal definire l’arte per l’arte, l’opera è collocata in una condizione storica. Le differenti soluzioni poste da Bonacci con le sue opere sono ancora una volta momenti qualificanti di un pensiero umanistico alla continua ricerca della definizione della bellezza. La storia naturalmente viene intesa non come attenzione ad un’attualità facilmente obsolescente ma come condizione etica dell’artista in un tempo presente. Egli si deve fare carico della propria responsabilità a fornire continuamente visioni possibili ed occasioni speculative allo sguardo critico dell’osservatore che seppur momentaneamente soddisfatto, ma mai pago, attende ulteriori opere.


(Testo critico pubblicato nel catalogo monografico "Stefano Bonacci", Spoleto 2008)