Aldo Iori 

Del petalo, del colore e del cielo


«L’uomo è dinnanzi alla natura, ne è parte, e la osserva nel suo continuo mutare. Coglie con il pensiero le sue complessità, i misteri e le manifestazioni più sorprendenti. Tenta spiegazioni mediante la religione, la scienza e la filosofia ed altro. L’arte non è un diretto pensiero speculativo sulla realtà della natura, né forma esplicativa in esemplificazioni mimetiche; essa è l’esternazione umana con il più alto livello di astrazione, delegata a produrre forme del pensiero del mondo. 

L’arte si relaziona con la natura  in un rapporto almeno duplice. Lo sguardo dell’artista è da sempre rivolto ad essa per trarne ispirazione e per cogliere immagini che, riprodotte, evochino la natura, essendo parvenza di ciò che soggiace invisibile in un oltre raggiungibile solo con il pensiero. L’arte parla sempre di altro da quello che ci mostra, ma spesso per esserci deve usare immagini tratte direttamente dall’osservazione del mondo naturale. Chi osserva l’arte sa molto bene che ceci n’est pas une pipe, ma neanche un paesaggio, una natura morta, un ritratto. Nella contemporaneità, grazie anche all’avvento dell’astrazione non oggettiva, l’osservatore si è volto a considerare l’arte visiva tradizionale come forma non più unica del pensiero del mondo e ciò appare sempre più evidente nell’attenzione posta nell’uso delle immagini in ambiti culturali tangenti a quello dell’arte o in altri lontani da essa. 

L’artista ha avuto nel tempo con la natura un altro rapporto, questa volta derivato dal contatto diretto e materico con essa. Il pensiero per rendersi visibile deve sostanziarsi in un’opera, in una forma e in un’immagine (anche non mimetica del reale), e quindi si poggia sull’apparire e sulla tangibilità di materiali tratti dal mondo naturale. L’artista diviene colui che possiede il potere alchemico della trasformazione: l’oro diviene leggera foglia sulla tavola o nel mosaico per catturare la luce e indicare la spiritualità; le materie, anche le meno nobili, attraverso la sua manipolazione, si trasformano per divenire altro nel tentativo di raggiungere la perfetta creazione, ad imitazione di ciò che il ‘grande artefice’ realizza nel mondo esterno. L’artista si affanna a trasformare gli ossidi, le terre, i composti chimici nei colori che il mondo ci mostra e che con apparente facilità continuamente produce. Nei secoli gli artisti hanno trovato motivo d’angustia e cruccio nel constatare la propria impotenza a riprodurre perfettamente le variazioni atmosferiche del cielo o le cangianze delle foglie o del piumaggio di un uccello o, nonostante la conoscenza degli artifici leonardeschi, la densità cromatica spazio-temporale di un paesaggio. Nella contemporaneità tale alchimia può non essere più necessaria come un tempo o per lo meno non nei medesimi termini. Il carbone, il sacco, il legno o il metallo sono portatori del loro colore senza più camuffamenti o finzioni. 

Nella festa dell’Infiorata avviene un procedimento artistico particolare. L’immagine è realizzata con i colori della natura, direttamente. Il mondo vegetale produce fiori che, raccolti e distinti per le loro proprietà cromatiche, sono utilizzati direttamente come materia per la composizione. L’artista agisce in uno spazio orizzontale a creare un tappeto floreale e lo fa utilizzando ciò che, già pronto, la natura gli fornisce nella stagione più generosa. Una sorta di tavolozza naturale…

Quando è stato proposto ai quattro artisti la partecipazione all’Infiorata essi si sono subito dichiarati disponibili a cimentarsi nel giorno della festività del Corpus Domini in una sorta di scommessa cromatica e tecnicamente nuova per loro ed hanno formulato un’ipotesi dell’opera da realizzare. [...]


Stefano Bonacci tratta il tema del Corpus Domini partendo dalla parola stessa della festività che viene assunta come immagine costitutiva dell’opera. Definita con un carattere suntuoso essa è doppiamente ribaltata e posta al centro del tappeto floreale elaborato con i soli colori della tradizione rituale: il rosso, il bianco e il violaceo. L’apparente semplicità dell’assunto formale è elemento caratteristico del lavorare del giovane artista perugino. Egli in questi anni ha elaborato una metodologia di approccio all’immagine che pone le questioni relative sia alla sua costituzione concettuale, sia ai materiali e procedimenti elaborativi dell’opera, sia alla presenza di un osservatore che è posto dinnanzi all’opera. Elementi del suo operare divengono quindi la geometria e il processo relativo al raggiungimento finale di una proporzionalità e sospensione di derivazione classica; oppure l’uso di materiali specifici che non sono solo lo specchio, il ferro, il pigmento ma anche quelli più tecnologici che vengono combinati normalmente in situazioni spaziali installative; o anche l’invito all’osservatore di porsi in un punto di vista specifico, sorta di postazione privilegiata nella quale possa innescarsi  il procedimento della visione. Nello stesso lavoro di Cannara il ribaltamento scardina e contemporaneamente rafforza nell’orizzontalità bidimensionale le tradizionali coordinate cartesiane.


Il passaggio tra la fase ideativa e quella operativa, per la presenza e le qualità delle differenti essenze cromatiche a disposizione, produrrà una inevitabile differenza, un interessante scarto tra un prima e un dopo.

Le opere saranno calpestate solo dall’officiante la funzione religiosa. Gli osservatori (artisti, esecutori, pubblico) potranno con l’avvento del dì di festa ammirarle cercando di cogliere l’interezza della loro visione. Bisognerà superare l’abitudine alla visione frontale e accettare lo sguardo tangenziale all’opera poiché il forse ideale  punto di vista è posto in alto nell’irraggiungibile cielo.»


(Testo critico pubblicato in occasione dell'installazione floreale "Corpus Domini", Cannara, Perugia 2005)